Il primo giorno

Oggi è il primo giorno dell’esistenza dello Stato di Israele senza Shimon Peres.

Era lì a combattere già nell’Hagana, prima della fondazione di Israele e poi nel neonato esercito, lottando per stabilire lo stato tra i nemici della guerra di indipendenza.

Era lì a firmare gli accordi di Oslo, a fianco del compagno di partito Rabin e di Arafat, prima di ricevere con loro il Nobel per la Pace.

È stato lì fino alla fine, nei suoi ultimi anni come Presidente simbolo dello Stato di Israele, e poi come guida esterna del paese.

Shimon Peres c’è sempre stato, prendendo per mano la nazione fin dalla sua fondazione,
accompagnandola fino ad suoi ultimi momenti, come un nonno fa col suo nipote.
Ha messo la faccia, e la firma, nei più grandi passi avanti dello Stato.

Da politico di spicco, da Primo Ministro e Presidente, ha vinto molte battaglie per amore di questo paese, ma ne ha anche perse alcune, sempre per amore di Israele.

È rimasto al suo posto, anche durante periodi bui, o quando lo stesso paese che ha contribuito a forgiare sembrava non seguirlo, ma sempre con l’obbiettivo di lasciare questa terra in una situazione migliore rispetto a quando l’ha presa per mano la prima volta.

Ottimista di natura, sguardo sempre volto al futuro più che al passato, sempre verso la pace. Uomo di speranza. L’Hatikwa è stato proprio il suo inno.

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Ho avuto la fortuna e l’onore di incontrarlo un paio di volte e di sentire alcune delle sue parole dal vivo. Una sera, a Kikar Rabin, durante la commemorazione dell’uccisione del Primo Ministro, era più agguerrito del solito: “La pace si fa con il nemico…Non so se arriveremo ad una pace perfetta, ma meglio una pace fredda che una guerra calda… Ero un giovane e ora sono invecchiato, ma spero di essere qui al momento della firma”.

Ci ha insegnato che bisogna tendere la mano sempre, anche quando la mano non ci viene tesa dall’altra parte.

La sua filosofia ed energia lo ha fatto diventare uno dei più fieri ambasciatori di Israele e della pace in tutte le città del mondo.

Ripeteva che se si seguono i propri ideali più che il proprio ego, allora ci si trasforma in grandi uomini. Shimon ha provato a farlo.

Perseguire il proprio ideale a discapito della popolarità o del fine politico lo ha elevato a simbolo di questo paese, ed è merce rara nella politica di oggi.

Ci lascia in eredita una responsabilità importante, come la sua visione sulla nanotecnologia per soffiare nel vento dell’innovazione e l’istituzione del “Centro Peres per la Pace”, per soffiare nel vento della fratellanza tra i popoli della regione.

I suoi progetti, come quello di Saving Children, dove bambini palestinesi vengono curati in ospedali israeliani, ci continueranno a mostrare un possibile futuro di convivenza, e ci lasceranno sperare in una Pace che oggi sembra lontana. (http://www.peres-center.org/saving_children)

Ci lascia un vero ultimo padre fondatore, lasciando un vuoto incolmabile che faticheremo a riempire. Che il suo ricordo sia di benedizione e di esempio.

Daniele Di Nepi
Twitter @danieledinepi

#BlackLivesMatter!

Non è sempre facile o bello fare i conti con la realtà. Spesso ci mette davanti a verità che sarebbe meglio non vedere, lasciare in secondo piano, dimenticare.
E’ solo attraverso un doloroso e difficile lavoro di analisi dei fatti che la realtà si può cambiare e migliorare..da Roma a Ferguson, fino a Tel Aviv.
In un mondo dove le barriere ed i confini diventano sempre più un limite invalicabile tra chi ha accesso a diritti e dignità e chi non può permetterselo; dove nove persone vengono uccise da un suprematista bianco in quello che è solo il più recente degli episodi di violenza razziale e razzista negli Stati Uniti; dove l’Ungheria predispone un muro anti-rifugiati e la schedatura della popolazione ebraica mentre la Francia e l’Italia mercanteggiano su vite umane, il resto del mondo osserva, passivo, nel migliore dei casi preoccupato.
Anche Israele, purtroppo, non è esente da simili, tristissimi, fenomeni.
Poco più di un mese fa infatti, il paese ha assistito alle due prime grandi manifestazioni della comunità Beta Israel nelle strade di Gerusalemme e Tel Aviv.
Le manifestazioni, che hanno visto anche interventi molto energici sui manifestanti da parte della polizia, hanno portato nelle strade delle due più importanti città del Paese la rabbia e la frustrazione di una minoranza, quella etiope, che dal momento del suo arrivo in Israele (attraverso una prima ondata nel 1984 con l’operazione Mose ed una seconda nel 1991 con l’operazione Salomone), ha lamentato non solo il suo mancato assorbimento nella società civile, ma anche inaccettabili e ripetuti trattamenti discriminatori e violenze dovute al colore della pelle.
Gli episodi più recenti di un video, diventato virale online, di due poliziotti che picchiano selvaggiamente un soldato Israeliano di origini etiopi e di un servizio di Channel 2 che mostrava come alcuni residenti di Kiryat Malakhi  promettessero di non vendere o affittare gli appartamenti a famiglie etiopi israeliane, sono solo i più recenti degli episodi che descrivono la situazione di una comunità di circa 125000 persone, il 2% della popolazione complessiva israeliana, che da sempre è stata fatta sentire, sia a livello sociale che religioso, una comunità di ebrei di serie B.
A simili esempi vanno infatti aggiunti gli episodi, simbolici, dei rituali di conversione a cui sono state sottoposte le comunità etiopi al loro arrivo in Israele (rituali che invece non sono stati predisposti per le comunità sovietiche),ed i rifiuti di alcuni(fortunatamente non tutti) ospedali israeliani di accettare donazioni sanguigne di chiunque appartenesse alla comunità Beta Israel per paura che fosse portatore di HIV, oltre che moltissimi episodi di “comune” razzismo.

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Secondo i dati dell’ultimo rapporto JDC, pubblicato nel 2012 dall’Istituto Brookdale di Gerusalemme, la comunità israeliana etiope continua a rimanere indietro in quasi tutti gli indicatori socio-economici, anche se le lacune stanno finalmente diminuendo in alcuni settori.
I dati mostrano che gli israeliani etiopi hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola superiore e meno probabilità di frequentare l’università del resto della popolazione israeliana. Essi hanno meno probabilità di essere assunti, e, a parità di mansione, guadagnano molto meno rispetto ai loro coetanei. I tassi di povertà poi, sono molto più alti della media tra gli appartenenti alla comunità Beta Israel, e,  sebbene si arruolino nell’esercito in percentuale maggiore rispetto agli altri israeliani, il loro tasso di dimissione precoce è notevolmente superiore alla media.
A livello pubblico poi, appare critica la mancanza di una struttura politica di riferimento per la comunità etiope israeliana, che aldilà di alcune personalità ed episodi sporadici non è minimamente inserita nella dimensione pubblica del paese di cui è parte integrante a tutti gli effetti.
Tuttavia, il rapporto JDC mostra anche, ed è questo il dato per iniziare una analisi costruttiva, un tasso di mobilità sociale molto più alto che in passato, specialmente per i membri più giovani della comunità Beta Israel, nati in Israele.
In base a questo, le manifestazioni di Gerusalemme e Tel Aviv, che hanno il grande merito di rompere un silenzio mediatico interno alla società israeliana durato troppo a lungo, vogliono quindi avere un duplice significato: in primo luogo la sacrosanta rabbia e protesta contro gli odiosi crimini di matrice razzista che stanno nuovamente invadendo tutto il mondo (da qui l’uso da parte di molti manifestanti dell’hashtag #BlackLivesMatter, che riprende le proteste di Ferguson),con la richiesta di una condanna univoca da parte di tutto il Paese e di un segnale forte che ponga al centro del dibattito pubblico simili temi e problematiche, e dall’altra, la nascita di una coscienza collettiva nella comunità Beta Israel, con la creazione di una struttura sociale e politica, organica e reale, che possa finalmente riconoscere in maniera sostanziale pari diritti e dignità a tutti i suoi cittadini.
Una necessità questa, non più rimandabile o eludibile, con cui Israele e gli Israeliani dovranno necessariamente fare i conti in modo serio ed onesto, prima che sia troppo tardi.
Quale sarà il futuro di tali proteste solo il tempo potrà dirlo, e molto dipenderà da quale sarà la continuazione di una simile mobilitazione, che dovrà necessariamente diventare permanente e radicalizzarsi nella società israeliana, cercando la voce più forte possibile.
In un Israele sempre più diviso in gruppi separati ed incapaci di comunicare tra loro, la battaglia per i diritti e la dignità dentro una società così meravigliosamente variopinta deve essere assolutamente fondamentale ed imprescindibile, per tutti.

Enrico Campelli

Telecronaca di uno stupido referendum

“Amore, amore!! Hanno votato Leave!!!”

Con queste parole intrise di panico e shock la mia ragazza mi svegliò all’improvviso la mattina del 24 giugno 2016. Erano le sei, e lei torreggiava sopra di me mentre io cercavo di capire chi e dove fossi.

“..ma come…hanno votato…Leave…” – biascicai con la voce impastata.
“Ed ora?! Che succede?” – continuò lei agitata.
Mi tirai su e cercai a tentoni il cellulare, aprendo l’app del Guardian sull’iPhone.
Cominciai a leggere mentre una home page affollata di titoli rossi con scritto “Breaking News” si caricava.
Man mano che scorrevo le pagine la notizia diventava sempre più reale: quegli idioti avevano veramente votato Leave, 51.9% vs 48.1%.

Non ci potevo credere; ero andato a letto dicendomi “ma sì, vedrai che sarà un risultato magari risicato, ma andrà bene” ed invece no, gli inglesi avevano deciso di uscire dall’Unione Europea. Mentecatti.

Mi vestii in fretta e furia passando la maggior parte del tempo incollato al cellulare, leggendo le notizie che arrivavano con il contagocce (d’altronde erano le 6:30, e va be’ che “il mattino ha l’oro in bocca”, va be’ che stai all’estero e quindi la gente al lavoro presto ci va per davvero però comunque c’è un limite a tutto) fino a che Cameron non decise di tenere una conferenza stampa alle 9.

Il resto è storia. Un paese mandato alla deriva, senza comandante e senza direzione, in una delle tempeste politiche più grandi degli ultimi anni. Se non fosse stato che non vedevo il sole da 8 mesi, avrei pensato di essere rimasto in Italia (perché “te pare che all’estero fanno ste cazzate?”); invece no, a giudicare dalle scritte agli incroci (“Look both ways”) e dal costante “Mind the gap, please”, ero proprio nel Regno Unito.

Aldilà delle paure concrete (Cosa ne sarà del mio futuro? Rimanere qui richiederà complicati passaggi burocratici al limite dell’impossibile? Continuerò ad avere offerte di lavoro?) la sensazione più angosciante era il sentirsi improvvisamente rifiutato.

Dal giorno alla notte (letteralmente) uno dei paesi più multiculturali e progressisti del mondo ci faceva sentire come dei corpi estranei da rimuovere.

Per fortuna, un’analisi più approfondita rivelava quello che forse sapevamo già: non era stata la Londra dall’incredibile numero di comunità straniere a votare Leave, bensì la working class delle piccole città, delle realtà economicamente alla rovina da anni; tutte quelle persone che – a torto o a ragione – si sono sentite dimenticate dai loro stessi politici e hanno sentito che incolpare l’UE e i suoi cittadini sarebbe stato più facile che prendere coscienza dei limiti del proprio paese.

Improvvisamente il Regno Unito era diventato un paese xenofobo e le prime pagine parlavano di attacchi a sfondo razzista a persone dalla provenienza più disparata.

Allo stesso tempo tutti i politici coinvolti in questo disastro totale abbandonavano la nave uno ad uno, dimettendosi a tempo di record e cercando di scaricare la patata bollente in mano al prossimo venuto.

Nel caos più totale l’unica consolazione era ricevere il supporto di tutte quelle persone che a votare Leave non ci avrebbero mai pensato; essere testimoni del loro sgomento – forse più grande del nostro – ed assistere alla nascita di idee tanto assurde quanto geniali (come la proposta di rendere Londra città indipendente e parte dell’UE).

Ad oggi, qualche settimana dopo l’inizio di una nuova epoca storica, regna ancora la confusione: il prossimo Primo Ministro sarà probabilmente ancora più difficile da digerire di quanto non lo fosse Cameron, il Paese non è più dentro ma neanche completamente fuori l’Unione, le famiglie sono divise (perché i figli pro-Europa hanno scoperto di avere genitori tendenzialmente reazionari e ottusi), l’economia è alla deriva e il futuro di migliaia di persone è appeso ad un filo.

Cosa ne sarà di questa situazione non è dato saperlo ma una cosa è certa: per l’ennesima volta nella storia dell’Umanità abbiamo avuto la triste dimostrazione di quanto le crisi economiche e politiche che dimenticano di considerare tutte le fette della società portino a rigurgiti di razzismo, xenofobia e nazionalismo.

Tre fenomeni a cui abbiamo già assistito e che speravamo di aver buttato dietro le spalle.
Speravamo.

Andrea Calò

Il muro del pianto e della discordia

Alcuni l’hanno definita una svolta storica ed epocale, altri invece la vedono come l’inizio della fine.
Qualunque siano le posizioni a riguardo, la decisione di domenica scorsa dell’esecutivo Netanyahu di iniziare la costruzione, al Kotel di Gerusalemme, di una zona mista, in cui tutti, indipendentemente dal genere, potranno pregare, è certamente una di quelle notizie destinate ad alimentare lunghe e difficili discussioni nel mondo ebraico.

Il progetto, i cui lavori non inizieranno prima di alcuni mesi, prevede che la nuova sezione, grande circa 900 mq, venga inaugurata nel lato meridionale del Muro, dove adesso vi è un parco archeologico voluto dall’ex ministro per gli affari religiosi Naftali Bennet. Il piano, frutto di lunghe e difficili negoziazioni, prevede che la nuova sezione avrà anche lo stesso ingresso delle due già esistenti(dove invece vige una chiara divisione dei sessi) e godrà di pari visibilità.

Il perché delle moltissime discussioni e polemiche è chiaro e presto detto: si tratta di una decisione che rompe il monopolio ortodosso sugli affari religiosi, riconoscendo di fatto diverse voci in capitolo.
Il gruppo “Le donne del Muro”, legate all’ebraismo riformato e principali artefici di questa svolta, hanno infatti ottenuto che la nuova sezione non sia controllata dagli ortodossi come le altre:
Rav Shmuel Rabinowitz, attualmente custode del Muro del Pianto, non controllerà quindi l’area conosciuta come “upper plaza” e situata al di fuori delle zone ufficiali per le preghiere. Tra le conseguenze concrete, tra le altre, vi è il fatto che d’ora in poi sarà quindi possibile tenere nell’area designata cerimonie pubbliche dove uomini e donne potranno sedersi insieme e dove le donne avranno la possibilità di cantare le varie preghiere.

I termini del nuovo accordo prevedono che la zona riceva finanziamenti governativi e operi sotto la gestione di una commissione comprendente rappresentati del Governo, dei movimenti Conservative e Reform, dell’Agenzia Ebraica, delle Federazioni ebraiche del Nord America e del gruppo Women of the Wall.

Definendo la decisione “rivoluzionaria”, Rav Gilad Kariv, direttore esecutivo del movimento Reform in Israele, sottolinea come questa sia la prima volta che il governo israeliano garantisce un riconoscimento ufficiale a movimenti religiosi pluralisti. “Una volta per tutte, il Governo ha messo fine al monopolio ultra-ortodosso del Kotel, e ha stabilito che nel luogo più sacro per il popolo ebraico ci possa essere più di un modo per pregare e legarsi alla tradizione ebraica”.

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In un comunicato congiunto, i leader del movimento mondiale Conservative si sono detti “eccitati di vedere come i nostri sforzi si traducano finalmente in un riconoscimento della diversità e della natura pluralista del popolo ebraico, così come della legittimazione oggi ottenuta dalle correnti Conservative e Reform.”

Ma se da un lato si levano voci ed opinioni entusiaste, non mancano, come sempre in questi casi, le parole di chi invece è contrario a questo cambiamento e alle sue ovvie implicazioni teoriche.

Proprio Rav Shmuel Rabinowitz, responsabile del Kotel, ha dichiarato immediatamente: “La profanazione del nome di Dio che questo gruppo (Donne del Muro, ndr) e i suoi supporter stanno causando è terribile, serviranno anni per porvi rimedio”. “In generale le preghiere, e al Kotel specialmente, devono essere eseguite in accordo con l’Halakhà (la legge religiosa ebraica, ndr) e con le tradizioni ebraiche che si sono tramandate di generazione in generazione”. “Il Kotel continuerà ad essere aperto ad ogni devoto, uomo o donna, ad ogni ora di ogni giorno, con rispetto e devozione alla tradizione ebraica e alla sua eredità, di cui il Muro del Pianto è assoluto simbolo”.

A complicare ulteriormente un dibattito ingarbugliato e delicatissimo, va sottolineato come il nuovo accordo non proibisca esplicitamente alle donne di indossare il Tallit o i Tefillin nella zona tradizionale, (quella cioè in cui vige la separazione tra uomini e donne ed un rito ortodosso) nemmeno quando sarà attiva la nuova sezione del Muro.

Stabilisce però che nelle due sezioni che rimarranno sotto controllo ortodosso, le regole circa le preghiere verranno dettate dall’interpretazione ortodossa della Halakhà e dagli “usi locali” così come intesi dal Rabbinato centrale.

Poiché questi termini sono aperti ad interpretazione all’interno del movimento Ortodosso, non è ancora chiaro se le donne potranno continuare ad indossare Tallit e Tefillin, pratica totalmente rigettata dagli ortodossi, anche quando pregano nella sezione esclusiva per le donne, come le attiviste di “Donne del muro” hanno fatto fino alla recentissima decisione dell’Esecutivo israeliano.

In una nota, il gruppo Donne del Muro ha dichiarato che il nuovo piano per il sito è “il primo passo per la completa uguaglianza femminile al Kotel, il luogo più sacro dell’ebraismo e fondamentale spazio pubblico in Israele”. Il gruppo ha anche dichiarato che la creazione di una terza sezione “egualitaria” del muro “pone in essere un forte precedente per lo status delle donne in Israele: donne come amministratrici di un luogo sacro, come leader, come una forza influente impossibile da ignorare o silenziare”.

Di contro però, una delle leader del gruppo, Shulamit Magnus, staccatasi dal movimento e fondatrice del gruppo “Original Woman of the Wall”, ha dichiarato apertamente di non avere alcuna intenzione di abbandonare la sezione esclusivamente femminile: “non vogliamo prendere nessun ordine dal Gran Rabbinato su come dobbiamo pregare”.

Ad esprimere grandi riserve è stata anche Dr. Hannah Hashkes, membro dell’Executive Commitee dei rabbini del Beit Hillel, un gruppo ortodosso progressista: “è molto positivo che le autorità finalmente capiscano che c è più di un tipo di ebreo nel mondo, ma questo accordo non garantisce nessuna soluzione per le donne ortodosse che vogliono continuare a pregare nella zona esclusivamente femminile ma non in maniera ultra-ortodossa”. “Inoltre, il Kotel dovrebbe essere un luogo sacro unico per tutto il Popolo ebraico, mentre un simile accordo lo trasforma in un insieme di sinagoghe diverse per diversi movimenti.”

 

Moltissimi i punti di vista quindi, e sebbene siano moltissime le sensibilità coinvolte ed il dibattito sia spesso oltremodo acceso, è lecito pensare come una simile situazione, con tutti gli sviluppi che potrà avere e le discussioni che inevitabilmente nei prossimi mesi ci saranno, abbia il merito di sollevare un argomento, quello del pluralismo ebraico, troppo spesso visto come marginale o meramente politico, un dibattito avvisato spesso come un fastidio piuttosto che una reale e stupenda possibilità di crescita per un mondo, quello ebraico, ed un paese, Israele, la cui linfa vitale sono proprio le moltissime anime, fortunatamente diverse e a volte troppo lontane, da cui sono composti e di cui si nutrono quotidianamente.

 

Enrico Campelli

Rabin, the Last Day, di Amos Gitai

La necessità di alcune ricognizioni possibili.

L’ultimo film di Amos Gitai arriva a venti anni dall’accaduto che vuole ricordare: la morte dell’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin a seguito di un attentato da parte di un giovane ultraortodosso dell’estrema destra.

Gitai vuole ricostruire un episodio che ha inciso molto sulla realtà israeliana, “un atto brutale che ha sconvolto la società israeliana” come ha dichiarato in una recente intervista a un giornalista francese il regista. Probabilmente, per proseguire l’indagine cinematografica sul conflitto, il regista aveva la necessità di passare attraverso l’analisi dell’omicidio di Rabin e dei giorni che lo precedettero, o, in altre parole, di mettere a fuoco come sia stato possibile che in uno stato democratico un individuo abbia progettato la morte di un uomo per interrompere un processo di pace di portata storica.

La scena di apertura si offre allo spettatore nei suoi tratti essenziali e sobri: Shimon Peres è seduto in una stanza scura, spoglia di qualsiasi arredo, è al centro della scena ed è intervistato da una giornalista che gli pone alcune domande sulla morte di Rabin e sul tesissimo clima di conflittualità politica dei mesi in cui le trattative per gli accordi di pace vennero rese note. Vi è una elegante corrispondenza tra le parole dell’ex Presidente Peres e la stanza scura e essenziale in cui esse sono fisicamente pronunciate. Le parole sono cariche di solennità e di serietà, di rispetto e di consapevolezza, infine di tristezza, di una tristezza militante e non meramente commemorativa. Dalla testimonianza di Peres, uno dei collaboratori più stretti di Rabin al momento dell’assassinio, il regista inaugura un percorso a ritroso, raccontato nella ricostruzione delle fasi e dei limiti dell’inchiesta che il Governo israeliano commissiona alla Corte Suprema dopo l’omicidio. La testimonianza reale, scelta dal regista, scorre affianco alla  ricostruzione delle testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta del 1995, in un riinvio tra tempo presente e tempo del racconto che ha delle chiare implicazioni con il segnale che Gitai vuole trasmettere circa l’attualità dell’assassinio.

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Aldilà di una notevole perizia filmica – il continuo passaggio da materiale d’archivio a scene ricostruite e girate, i piani sequenza molto lunghi- la motivazione del film sta tutta nella ricognizione che il regista vuole portare a termine: ricognizione di testimoni, dati, materiali, ricordi, immagini, mappe, lettere, libri, ma anche e soprattutto verità.

A questo proposito un’avvertenza è doverosa: il Presidente della Corte Suprema raccoglie questi dati esclusivamente per chiarire la dinamica dell’attentato, il suo svolgimento, al fine di individuare le falle dell’organizzazione amministrativa statale.

Tuttavia, il film lancia un ammonimento. Infatti, i due avvocati che stanno lavorando all’indagine chiedono al giudice che presiede la commissione d’inchiesta di allargare l’orizzonte delle ricerche, giacché per aver accesso alla verità, non è possibile ignorare le derive ideologiche estremiste che alcuni gruppi della destra radicale stavano alimentando all’interno del Paese in quei mesi (e che solo qualche giorno fa sono tornate a occupare le pagine dei giornali, portando sconcerto in seno alla scena politica) e, elemento non secondario, il tipo di risposta che venne dato da parte di alcuni responsabili politici. Il giudice, ligio al suo lavoro e alle rigorose restrizioni che gli sono state imposte, rifiuterà: l’inchiesta, spiega, ha il compito di intraprendere ricerche esclusivamente concernenti il funzionamento, o meglio, il malfunzionamento della macchina statale, anche se questo “non esime l’intera società israeliana dall’obbligo di fare un esame di coscienza collettivo per tentare di rispondere all’esigenza di sapere come si è arrivati all’assassinio di un Primo Ministro” da parte di un estremista.

In un’intervista del 2014 Amos Gitai dice che Rabin fu l’unico politico ad avere avuto il coraggio di dire la verità al suo popolo, di dire che occorreva fare la pace e che per realizzarla occorreva dividere la terra.

Rabin, in virtù dell’impegno assunto una volta salito al governo, si prese la responsabilità di restituire una lettura politica dei fatti veritiera e complessa, ponderata, equa, onesta. Ebbe il coraggio di parlare di reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi, di far avanzare nel Paese idee contrastanti con la tendenza nazionalistica che andava invece diffondendosi e radicalizzandosi in varie forme, incoraggiata del resto anche dalla destra di Likoud e dallo stesso Netanyahu, come le immagini di repertorio inserite nel film dimostrano.

Prima di lasciar andar via gli spettatori, Gitai getta ancora un’inquadratura sul presente, questa volta ambientando la scena finale del film in una Tel Aviv tappezzata di manifesti elettorali della campagna elettorale di Netanyahu.

In Israele oggi è al governo chi nel 1995 ha contribuito al clima di tensione, frutto della campagna denigratoria che per mesi prese di mira Rabin e la sua politica di pace ed esistono ancora gruppi di estrema destra e ultranazionalisti che rimandano con il ricordo agli ultimi giorni di Rabin.

Il regista, così, sembra lanciare un appello a rinnovare quell’esercizio di introspezione che il Presidente della Corte Suprema ritenne necessario per la società intera venti anni fa e sembra compiere quello che all’inchiesta non fu possibile: provare a capire il ruolo svolto dall’ideologia nazionalista nell’assassinio di Rabin.

Gitai ci dice che combattere il pericolo insito nella dialettica estremista della destra radicale, ovvero il modo in cui questa propone di considerare politicamente (o non considerare) l’altro, è una responsabilità collettiva. Si esce dalla visione del film  con la sensazione di essere stati ridestati e riabilitati tutti quanti a vigilare su due punti chiave: che rapporto abbia oggi Israele con le derive nazionaliste e a che punto sia arrivato l’esame di coscienza iniziato nel 1995.

(Il film dura 2h 30 min, di cui il 10% è costituito da materiali di repertorio. Il restante 90% è stato ricostruito fedelmente alle testimonianze che sono rimaste di quanto avvenne sia il giorno della morte, sia durante i giorni dell’inchiesta).

Gaia Litrico

Chi erano gli Jeckes?

“C’è una grande differenza fra gli ebrei di origine tedesca che vivono in Israele e quelli che vengono da altri paesi. Gli ebrei sono ebrei e gli Jeckes sono Jeckes” (Nachum Tim Gidal).

E’ proprio da questa dichiarazione identitaria che muovono le principali domande di questo articolo: chi erano gli Jeckes? Quali i loro rapporti con la Germania e quali con la Palestina? Quali sono i tratti più importanti che costituiscono la loro identità?
Dalle parole di Nachtum Tim Gidal , nato a Monaco nel 1909 ed emigrato in Palestina nel 1930, sembra trasparire chiaramente una particolare consapevolezza nonché una forte rivendicazione della propria origine che lo distinguerebbe radicalmente sia dal resto dei migranti sia dagli originari abitanti della sua nuova terra.
Ma quali sono i tratti distintivi, la scala di valori, la storia, le particolarità, insomma la visione del mondo di questa specifica categoria di tedeschi?

Per rispondere a queste domande partiremo dalla definizione del termine in questione.
Con Jeckes si intendono gli ebrei di origini tedesca che si sono stabiliti in Palestina fra il 1933 e i primi anni della seconda guerra mondiale per sfuggire alla politica del nazionalsocialismo. Per citare alcuni dati statistici nel 1933, anno in cui Hitler salì al potere, gli ebrei tedeschi in Germania erano circa 530.000, ma prima dello scoppio della seconda guerra mondiale circa 55.000 riuscirono a trovare rifugio in Palestina. Alcuni di loro venivano da famiglie ebraiche che si erano stabilite in Germania ormai da generazioni, altri invece costituivano la prima generazione di ebrei tedeschi poiché i loro genitori si erano trasferiti in Germania dall’Europa dell’est.
Il termine Jeckes venne infatti attribuito non solo ai tedeschi, ma anche a chi era originario di altre zone dell’Europa orientale e centrale. Oggi troviamo infatti in Israele numerosi ebrei di origini ceche, ungheresi, ucraine e provenienti da altri paesi la cui storia si è intrecciata con la cultura e con la lingua tedesca, che si definiscono come Jeckes.
Sono varie le denominazioni che identificano gli ebrei emigrati in Palestina a seconda del loro paese di provenienza: per gli ebrei sefarditi si usa l’appellativo Fraenk, per la donna polacca la definizione Polnische Dripke, gli ebrei provenienti dalla Galizia vengono chiamati galizianische Diebe mentre agli ebrei tedeschi viene accostato appunto il termine Jeckes.
Andando poi a scandagliare l’origine etimologica di quest’ultimo singolare e curioso vocabolo, si vedrà che la sua origine è dubbia e sfuggente, e che ha dunque scatenato una vera e propria discussione filologica fra gli studiosi.

Secondo alcuni esso deriverebbe dalla parola tedesca Jacke (= giacca) ed esprimerebbe una certa ironia nei confronti di quegli ebrei che, rifiutandosi di indossare la tradizionale gonna ortodossa, continuavano a portare una giacca corta nonostante il clima mediorientale. Oltre alla già notata ironia, dietro tale etimo si scorgerebbe anche un’accezione lievemente dispregiativa verso questa ostinazione a non abbandonare gli usi e costumi tipici della Germania e dunque all’incapacità di adattarsi ad un nuovo contesto.
Ancora più maligni inoltre quelli che interpretano il termine Jeckes come l’acronimo dell’espressione ebraica Jehudi Kasche Hawana traducibile come “ebreo duro di comprendonio” o “ebreo privo di ingegno”.
Un’ ulteriore etimologia lega l’origine della parola Jecke al carnevale renano, poiché l’organizzatore di tale  manifestazione è chiamato Geck. Quest’ultimo termine veniva usato in modo interscambiabile con il vocabolo Jeck. Tale associazione può anche essere connessa al significato di Geck come giullare da cui deriva anche il significato della figura del “Joker” nel gioco delle carte. Anche se persistono molto dubbi sull’originario significato del lemma in ebraico, è noto che la parola circolasse nei pressi della città di Colonia con il significato di “clown” o di “buffone”. Anche dietro questa ricostruzione etimologica si celerebbe dunque un valore canzonatorio e burlesco.

E’ evidente che, qualsiasi origine si intenda attribuire al termine in questione, ad esso si conferisca in ogni caso un’accezione negativa o quantomeno di carattere ironico e derisorio che poteva essere usata addirittura in modo offensivo e discriminatorio.
Soprattutto nei primi anni del loro soggiorno in Palestina infatti gli ebrei tedeschi incorsero spesso nell’essere etichettati negativamente come poco ironici, ostinati, incapaci di intendere facilmente le situazioni, poco flessibili e per nulla capaci di gestire i cambiamenti. Fra gli esempi si potrebbe ricordare la già citata rinuncia ad abbandonare la giacca nonostante il clima inadeguato, oppure la tendenza ad essere sempre molto precisi e puntuali.
Se da un lato dunque il termine Jeckes condensa in sé tutti questi aspetti piuttosto negativi, dall’altro esso veniva usato anche per indicare una certa precisione, una spiccata puntualità ed infine una notevole affidabilità.
Insomma, il significato attribuito al termine Jecke non fa altro che sintetizzare l’immagine, decisamente stereotipata, di un comportamento avvertito come tipicamente tedesco.

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Nonostante i pregiudizi e le stigmatizzazioni, questa particolare categoria si dimostra essere fortemente legata alla propria identità che tende a restare solida e ben definita nonostante il processo migratorio.
Gli Jeckes formano infatti un gruppo compatto all’interno della società prima ebraico-palestinese poi israeliana, tanto che si potrebbe addirittura parlare di una subcultura.
Gli Jeckes grazie al loro comportamento bizzarro e di certo originale, sono facilmente diventati oggetto, oltre che di pregiudizi e di immagini stereotipate, di sarcastiche e taglienti barzellette delle quali seguono alcuni esempi:

  • Un ebreo residente in Palestina ormai da diverso tempo chiede ad uno che invece vi si è appena trasferito: “Lei è qui perché è mosso da convinzione ideologica o si è mosso dalla Germania?”
  • [probabilmente si tratta di un episodio realmente accaduto]
    Una famiglia vince un frigorifero elettrico ad una lotteria. Si tratta di un elettrodomestico molto moderno e raro per quegli anni. Il frigorifero venne spedito con un furgone da Tel Aviv fino a Naharia nel nord del paese ed arrivò alle due del pomeriggio a casa della fortunata famiglia (ebrei tedeschi emigrati in Palestina). Quando l’autista del furgone suonò il campanello, la padrona di casa, dopo aver aperto la porta in vestaglia, rifiutò di accettare il frigorifero poiché le due del pomeriggio costituivano l’orario di riposo della giornata in cui non era permesso disturbare.

E’ interessante notare che quella che era stata in origine un’espressione offensiva ha poi con il tempo assunto un’accezione positiva tanto che  gli Jeckes oggi si identificano pienamente con questa denominazione dimostrando quindi una certa autoironia.
La parola Jecke è dunque un’etichetta elastica che sintetizza valori, aspetti e sfumature insieme positive e negative.
Oltre alla già citata rigidità, precisione e puntualità, un altro elemento caratterizzante degli Jeckes è il loro profilo linguistico. Essi infatti ebbero molte difficoltà ad imparare l’ebraico che quasi rifiutavano con un certo snobismo. Alcuni fra gli emigrati più anziani non impararono mai la lingua e ancora oggi ci sono membri della comunità le cui conoscenze dell’ebraico sono ancora molto scarse e rudimentali. L’ebraico ed il tedesco sono infatti due lingue molto diverse fra loro: l’una è una lingua semitica, l’altra indoeuropea. A complicare la situazione c’è anche da considerare l’uso di due alfabeti diversi: da un lato l’abjad, dall’altro quello latino.
Gli Jeckes continuano invece a dominare perfettamente la lingua tedesca, che resta senz’altro la loro lingua madre e alla quale si attribuisce il valore ed il prestigio di una grande cultura letteraria, poetica e filosofica.
Il tedesco parlato degli Jeckes ci appare come una lingua estremamente corretta e normalizzata, che sembra essere quindi quasi più vicina alla scrittura che non all’oralità. Tale particolare profilo linguistico, privo delle innovazioni del tedesco contemporaneo, è stato accostata da alcuni studiosi come una lingua vicina al tedesco risalente alla Repubblica di Weimar.
Nonostante le difficoltà degli ebrei tedeschi nell’apprendimento dell’ebraico, gli Jeckes ebbero però curiosamente un ruolo importante nello sviluppo del giornalismo israeliano. Fra i diversi editori, reporter e critici tedeschi basti ricordare Gershom Schocken, il proprietario del quotidiano ebraico Ha’aretz.

Abbiamo fino ad ora delineato l’etimologia, le principali caratteristiche comportamentali, gli usi e i costumi e le particolarità linguistiche degli Jeckes, ma quale era il loro profilo sociale?
Sintetizzando si può affermare che essi non appartenevano ad una classe sociale specifica poiché non è possibile collocarli né al vertice né alla base della piramide economica. Si tratta dunque in linea di massima di una classe media accomunata però da un alto livello di istruzione. La maggior parte degli ebrei tedeschi al momento dell’arrivo in Palestina era in possesso un titolo di studio medio o superiore ed una gran parte di loro disponeva addirittura di un titolo accademico.
L’identità culturale degli Jeckes apparteneva al mondo urbano mitteleuropeo ed i migranti cercarono in ogni modo di riottenere la stessa posizione sociale e lo stesso stile di vita che avevano raggiunto nel paese di origine. Molti portarono con sé quegli oggetti che avevano costituito la realtà delle loro case in Germania: numerosi libri di letteratura tedesca (molti dei quali furono proibiti e bruciati dai nazisti), eleganti mobili di mogano, pianoforti, grammofoni, quadri ed i più ricchi arrivarono addirittura con le loro eleganti automobili.
Per quanto riguarda l’età anagrafica degli Jeckes si data che essi erano più o meno fra i 26 ed i 45 anni nell’anno in cui Hitler salì al potere ed avevano dunque la stessa età o pochi anni di più nel momento dell’arrivo in Palestina.
Oggi dunque questa prima generazione di Jeckes sta lentamente scomparendo, solo pochi di loro sono ancora in vita e le nuove generazioni sembrano essere sempre meno legate al passato e sempre più inserite nel nuovo contesto israeliano. Anche la vitalità della comunità ebraico-tedesca sta ormai tramontando, i patrimoni bibliografici vengono progressivamente svenduti e le tipiche abitazioni degli Jeckes a Tel Aviv sono già sotto la protezione dell’UNESCO.
Attualmente assistiamo dunque ormai ad un processo di fusione fra la cultura ebraico-tedesca e quella israeliana. Anche se alcune iniziative culturali sono ancora attive, come ad esempio il quotidiano in lingua tedesca o gli incontri fra i membri delle associazioni degli ex cittadini di Amburgo, Francoforte o Berlino, le nuove generazioni si identificano ormai come israeliani e non più come tedeschi.

Volendo in conclusione fornire una sintetica definizione, con il termine Jeckes si intendono, con una certa sfumatura ironicamente spregiativa, gli ebrei tedeschi immigrati in Palestina a partire dagli anni trenta. Tale etichetta condensa in sé una serie di valori e di caratteristiche ambivalenti quali rigidità e chiusura, ma anche puntualità, precisione ed affidabilità. Infine un altro centrale elemento che identifica un Jecke è il suo essere di madrelingua tedesca ed il suo rifiuto, o quanto meno la sua difficoltà, ad applicarsi nell’apprendimento dell’ebraico.
Gli Jeckes in quanto migranti, possono essere dunque definiti come delle figure di confine, il cui profilo identitario è il frutto del contatto fra due mondi radicalmente differenti: da un lato l’ormai decadente scenario mitteleuropeo, alle soglie della seconda guerra mondiale, dall’altro invece il medio oriente, agli albori dell’imminente nascita di un nuovo stato.

Maria Francesca Ponzi

Kikar Rabin

I palazzi intorno a Piazza Malkei Israel, oggi Kikar Rabin, a Tel Aviv, sono costanti testimoni dei momenti più importanti della popolazione di Israele e delle sue sofferenze.

E non solo perché il 4 novembre 1995 hanno assistito all’assassinio di Yitzhak Rabin, e con lui alla morte della speranza nella pace. Quella pace che finalmente sembrava vicina, raggiungibile, e che è stata allontanata con due colpi di pistola .

Le mura dei palazzi di Kikar Rabin, i marciapiedi, i mattoni, se potessero parlare racconterebbero l’omicidio a freddo e crudele a cui hanno assistito, ma  anche il dolore che ogni anno, a Yom HaZikaron, il giorno del Ricordo, si legge negli occhi  delle migliaia di persone che affollano la piazza. Il 4 di Yiar secondo il calendario ebraico, il 22 aprile di questo anno, si sono ricordati tutti caduti in guerra, i soldati e le vittime del terrorismo. La cerimonia ufficiale si svolge al Muro del Pianto a Gerusalemme, ma anche a Tel Aviv, a partire dal suono della sirena durante la quale tutti  si fermano e ascoltano in silenzio, una folla di persone si raduna a Kikar Rabin. Lì si susseguono canzoni e storie di soldati caduti. Quest’anno, con le ferite della guerra contro Hamas della scorsa estate ancora aperte, le tristi storie che ci sono state raccontate erano più toccanti e vive che mai.

Vite di ragazzi ventenni, passioni, desideri, speranze strappate via e lanciate su una folla commossa. Commossa perché i ragazzi caduti sono figli e fratelli di tutti, perché ogni cittadino israeliano, ebreo e non, ha il dovere di svolgere il servizio militare così come lo faranno, a loro volta, i loro figli. Un’ eccezione è fatta per gli arabi israeliani che possono decidere volontariamente se arruolarsi.

Questa è la realtà di Israele, lo strazio che si respirava in quella piazza solo un israeliano poteva capirlo. La città si ferma, i negozi, i bar e i supermercati chiudono, alla radio mandano le classiche canzoni israeliane, “le più belle, ma anche le più tristi”, dicono.

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Il giorno seguente la vita frenetica di Tel Aviv continua normalmente tranne che per un’altra sirena alle ore 11,00. La città è di nuovo immobile, le macchine si fermano e le persone scendono in strada, in piedi, ad ascoltare questo suono assordante stridere nel silenzio. L’unico che continua a muoversi è imperterrito il mare, come a dimostrare che la natura, quella no, non può essere controllata.

La sera cambia di nuovo scenario, questa volta si festeggia Yom Hazmaut, e i 67 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. La nazione è in festa, la gente scende in strada fino a tarda notte, durante il giorno successivo si usano fare barbecue in giro per i parchi, ovunque sventolano bandiere d’Israele. Dopo il ricordo dei soldati caduti per la difesa dello Stato, si festeggia la sua nascita.

Intorno alle nove di sera al sud del Paese si sente un’altra sirena, stavolta però dal suono e dal significato diverso: un razzo lanciato da Gaza colpisce Israele vicino a Sderot. L’indipendenza israeliana è ricordata dai palestinesi come il giorno della Nakba – la catastrofe. Il razzo caduto nel giorno di festa, preceduto dalla sirena che avverte i cittadini di nascondersi nei rifugi, ci ricorda un’alternanza che spesso ritorna nella tradizione ebraica: il giorno nel matrimonio, il giorno della nascita di una nuova famiglia ebraica, si rompe un bicchiere a ricordare la distruzione del Santuario di Gerusalemme. Anche nella felicità, anche nel momento di massima gioia, ci si ferma a pensare alla storia del popolo ebraico, spesso caratterizzata da sofferenze, minacce e oppressioni.

 

Susanna Ascarelli

Un pianto unisono

Un Ebreo, un Italiano, un Rabbino ed una guida, spirituale e non. Rav Elio Toaff era tutto questo. Ebreo, prima di ogni cosa, mettendo la sua storia e la sua tradizione sempre al primo posto.

Italiano, che ha saputo quando era il momento di entrare nella resistenza per liberare il suo paese martoriato dalla guerra.

Rabbino ad Ancona, Venezia e Roma, ma soprattutto una guida ed un punto di riferimento per almeno tre generazioni di Ebrei italiani.

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Una guida coraggiosa, che ha tirato fuori la forza al momento di dover riunire una Comunità Ebraica ferita dopo la seconda guerra mondiale e le sue persecuzioni.

Una Rabbino Capo di Roma che ha dovuto passare, insieme alla sua Comunità, altri momenti duri, come il giorno del tragico attentato del 1982.

Una guida lungimirante, quando ha colto l’importanza di una visita storica, quale quella di Papa Giovanni Paolo II, primo Vescovo di Roma a varcare le porte di una Sinagoga in più di duemila anni.

Oggi piangono tutte le generazioni, compresa la mia, che ha avuto l’onore di conoscerlo, di sentire i suoi insegnamenti e di percepire quanto affetto la gente ha avuto per lui.

La sua figura resterà a lungo indelebile nei cuori di molte persone.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

Portoni

Chi ha frequentato almeno un giorno di studi in una scuola ebraica come me lo sa meglio di chiunque altro.

Da bambini ci siamo abituati a pensare che fosse normale il fatto di essere protetti. Ci siamo abituati a vedere la macchina dei carabinieri davanti al portone della scuola, a vederla all’ingresso della sinagoga, accanto alle transenne che limitano l’accesso durante i giorni di grande affluenza alle preghiere.

Crescendo ci siamo abituati a vedere le forze dell’ordine davanti ad ogni tipo di istituzione ebraica. Siamo abituati a vedere lampeggianti perfino dal finestrino dell’aereo che ci porta in vacanza a Tel Aviv.

Anche in vacanza in giro per l’Europa, abbiamo sempre visto grandi misure di sicurezza prima di andare a visitare un museo ebraico.

Da bambini è sempre stato normale e crescendo abbiamo capito quanto questa protezione, di forze dell’ordine e di volontari, sia importante. Per questo l’abbiamo sempre accettata e sostenuta, e continuiamo a farlo con forza.

Ma è bene chiarire una cosa: una società democratica non dovrebbe permettere che una parte di essa si senta un bersaglio.

Dovrebbe sì difenderla, ma senza dimenticarsi che questo deve rimanere un rimedio temporaneo. La vera sfida dovrebbe essere quella di fare in modo che questo rimedio non sia più necessario.

Dovrebbe difendere le comunità ebraiche con le forze dell’ordine, come fa. Ma non dovrebbe scordarsi come questa non sia la normalità, ma solo un dovuto accorgimento.

Noi ci siamo abituati, ma la società non avrebbe dovuto permettere di farci abituare a questa situazione.

Nel 2015, non dovrebbe essere “normale” dover proteggere dei bambini italiani ed europei all’ingresso delle elementari, o controllare ogni accesso ai luoghi di culto. Non dovrebbe essere accettabile che dei volontari rischino la vita per permettere ad una comunità di professare il proprio culto.

Invece, in qualche modo, questo è entrato a far parte della nostra normalità e, purtroppo, sembra proprio che continuerà a farne parte. E sembra che ora, questa protezione, sia più necessaria che mai.

Sarebbe bene ricordarci che questo non è giusto, prima che diventi “normale” vedere le stesse macchine della polizia davanti ad ogni redazione o chissà in quali altri posti.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

#BeCharlieTomorrow

Giorni difficili. Giorni che ci tengono preoccupati davanti alla Tv o al computer, in attesa di notizie da Parigi. Lontano, ma non troppo.

Una doppia strage colpisce la capitale francese. Dopo la strage dei vignettisti, colpiti per aver dissacrato figure religiose, la strage degli Ebrei, uccisi per il solo fatto di essere Ebrei.

Prontamente partono le gare di solidarietà da parte del popolo francese e di gran parte del resto del mondo: #JesuisCharlie in solidarietà con i vignettisti uccisi e per la libertà di espressione, #Je SuisAhmed, per ricordare il poliziotto mussulmano rimasto ucciso nell’attacco alla redazione e, infine, #JeSuisJuif per le vittime dell’assalto al negozio Kosher.

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Oggi siamo tutti solidali, come è normale che sia. Ma cosa succederà domani?
Come fare in modo che questi buoni propositi non restino solo un hashtag?

La sfida più difficile è infatti quella di ricordarsi di essere Charlie anche domani. Ricordarsi di essere paladini delle diversità e della libertà di espressione anche in futuro, e anche quando sarà difficile.

E’ giusto sottolineare però che viviamo in una società con dei limiti a questa libertà, ed è proprio la definizione di questi limiti a caratterizzare la società stessa.

Dove passa la linea che divide un articolo, magari satirico, molto critico e pungente da un atto di razzismo o antisemitismo?

Definire questa linea è molto difficile. Credo che questa linea venga superata superi quando si smette di criticare una persona per un suo comportamento o una decisione e si comincia a criticare una persona per quello che è.

Godere della libertà di espressione vuol dire essere coscienti che il dibattito va innalzato anche qualora ci trovassimo di fronte a idee molto distanti dalle nostre. Vuol dire rispondere criticando proprio le idee e non necessariamente le persone che le hanno formulate.

Ieri ci siamo accorti che la nostra libertà di espressione e di essere diversi è stata messa in discussione. Forse qualcuno lo aveva capito già da tempo.

Ma la sfida comune è quella di portare avanti la battaglia per l’espressione e la diversità anche domani.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi