#BlackLivesMatter!

Non è sempre facile o bello fare i conti con la realtà. Spesso ci mette davanti a verità che sarebbe meglio non vedere, lasciare in secondo piano, dimenticare.
E’ solo attraverso un doloroso e difficile lavoro di analisi dei fatti che la realtà si può cambiare e migliorare..da Roma a Ferguson, fino a Tel Aviv.
In un mondo dove le barriere ed i confini diventano sempre più un limite invalicabile tra chi ha accesso a diritti e dignità e chi non può permetterselo; dove nove persone vengono uccise da un suprematista bianco in quello che è solo il più recente degli episodi di violenza razziale e razzista negli Stati Uniti; dove l’Ungheria predispone un muro anti-rifugiati e la schedatura della popolazione ebraica mentre la Francia e l’Italia mercanteggiano su vite umane, il resto del mondo osserva, passivo, nel migliore dei casi preoccupato.
Anche Israele, purtroppo, non è esente da simili, tristissimi, fenomeni.
Poco più di un mese fa infatti, il paese ha assistito alle due prime grandi manifestazioni della comunità Beta Israel nelle strade di Gerusalemme e Tel Aviv.
Le manifestazioni, che hanno visto anche interventi molto energici sui manifestanti da parte della polizia, hanno portato nelle strade delle due più importanti città del Paese la rabbia e la frustrazione di una minoranza, quella etiope, che dal momento del suo arrivo in Israele (attraverso una prima ondata nel 1984 con l’operazione Mose ed una seconda nel 1991 con l’operazione Salomone), ha lamentato non solo il suo mancato assorbimento nella società civile, ma anche inaccettabili e ripetuti trattamenti discriminatori e violenze dovute al colore della pelle.
Gli episodi più recenti di un video, diventato virale online, di due poliziotti che picchiano selvaggiamente un soldato Israeliano di origini etiopi e di un servizio di Channel 2 che mostrava come alcuni residenti di Kiryat Malakhi  promettessero di non vendere o affittare gli appartamenti a famiglie etiopi israeliane, sono solo i più recenti degli episodi che descrivono la situazione di una comunità di circa 125000 persone, il 2% della popolazione complessiva israeliana, che da sempre è stata fatta sentire, sia a livello sociale che religioso, una comunità di ebrei di serie B.
A simili esempi vanno infatti aggiunti gli episodi, simbolici, dei rituali di conversione a cui sono state sottoposte le comunità etiopi al loro arrivo in Israele (rituali che invece non sono stati predisposti per le comunità sovietiche),ed i rifiuti di alcuni(fortunatamente non tutti) ospedali israeliani di accettare donazioni sanguigne di chiunque appartenesse alla comunità Beta Israel per paura che fosse portatore di HIV, oltre che moltissimi episodi di “comune” razzismo.

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Secondo i dati dell’ultimo rapporto JDC, pubblicato nel 2012 dall’Istituto Brookdale di Gerusalemme, la comunità israeliana etiope continua a rimanere indietro in quasi tutti gli indicatori socio-economici, anche se le lacune stanno finalmente diminuendo in alcuni settori.
I dati mostrano che gli israeliani etiopi hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola superiore e meno probabilità di frequentare l’università del resto della popolazione israeliana. Essi hanno meno probabilità di essere assunti, e, a parità di mansione, guadagnano molto meno rispetto ai loro coetanei. I tassi di povertà poi, sono molto più alti della media tra gli appartenenti alla comunità Beta Israel, e,  sebbene si arruolino nell’esercito in percentuale maggiore rispetto agli altri israeliani, il loro tasso di dimissione precoce è notevolmente superiore alla media.
A livello pubblico poi, appare critica la mancanza di una struttura politica di riferimento per la comunità etiope israeliana, che aldilà di alcune personalità ed episodi sporadici non è minimamente inserita nella dimensione pubblica del paese di cui è parte integrante a tutti gli effetti.
Tuttavia, il rapporto JDC mostra anche, ed è questo il dato per iniziare una analisi costruttiva, un tasso di mobilità sociale molto più alto che in passato, specialmente per i membri più giovani della comunità Beta Israel, nati in Israele.
In base a questo, le manifestazioni di Gerusalemme e Tel Aviv, che hanno il grande merito di rompere un silenzio mediatico interno alla società israeliana durato troppo a lungo, vogliono quindi avere un duplice significato: in primo luogo la sacrosanta rabbia e protesta contro gli odiosi crimini di matrice razzista che stanno nuovamente invadendo tutto il mondo (da qui l’uso da parte di molti manifestanti dell’hashtag #BlackLivesMatter, che riprende le proteste di Ferguson),con la richiesta di una condanna univoca da parte di tutto il Paese e di un segnale forte che ponga al centro del dibattito pubblico simili temi e problematiche, e dall’altra, la nascita di una coscienza collettiva nella comunità Beta Israel, con la creazione di una struttura sociale e politica, organica e reale, che possa finalmente riconoscere in maniera sostanziale pari diritti e dignità a tutti i suoi cittadini.
Una necessità questa, non più rimandabile o eludibile, con cui Israele e gli Israeliani dovranno necessariamente fare i conti in modo serio ed onesto, prima che sia troppo tardi.
Quale sarà il futuro di tali proteste solo il tempo potrà dirlo, e molto dipenderà da quale sarà la continuazione di una simile mobilitazione, che dovrà necessariamente diventare permanente e radicalizzarsi nella società israeliana, cercando la voce più forte possibile.
In un Israele sempre più diviso in gruppi separati ed incapaci di comunicare tra loro, la battaglia per i diritti e la dignità dentro una società così meravigliosamente variopinta deve essere assolutamente fondamentale ed imprescindibile, per tutti.

Enrico Campelli

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