Kikar Rabin

I palazzi intorno a Piazza Malkei Israel, oggi Kikar Rabin, a Tel Aviv, sono costanti testimoni dei momenti più importanti della popolazione di Israele e delle sue sofferenze.

E non solo perché il 4 novembre 1995 hanno assistito all’assassinio di Yitzhak Rabin, e con lui alla morte della speranza nella pace. Quella pace che finalmente sembrava vicina, raggiungibile, e che è stata allontanata con due colpi di pistola .

Le mura dei palazzi di Kikar Rabin, i marciapiedi, i mattoni, se potessero parlare racconterebbero l’omicidio a freddo e crudele a cui hanno assistito, ma  anche il dolore che ogni anno, a Yom HaZikaron, il giorno del Ricordo, si legge negli occhi  delle migliaia di persone che affollano la piazza. Il 4 di Yiar secondo il calendario ebraico, il 22 aprile di questo anno, si sono ricordati tutti caduti in guerra, i soldati e le vittime del terrorismo. La cerimonia ufficiale si svolge al Muro del Pianto a Gerusalemme, ma anche a Tel Aviv, a partire dal suono della sirena durante la quale tutti  si fermano e ascoltano in silenzio, una folla di persone si raduna a Kikar Rabin. Lì si susseguono canzoni e storie di soldati caduti. Quest’anno, con le ferite della guerra contro Hamas della scorsa estate ancora aperte, le tristi storie che ci sono state raccontate erano più toccanti e vive che mai.

Vite di ragazzi ventenni, passioni, desideri, speranze strappate via e lanciate su una folla commossa. Commossa perché i ragazzi caduti sono figli e fratelli di tutti, perché ogni cittadino israeliano, ebreo e non, ha il dovere di svolgere il servizio militare così come lo faranno, a loro volta, i loro figli. Un’ eccezione è fatta per gli arabi israeliani che possono decidere volontariamente se arruolarsi.

Questa è la realtà di Israele, lo strazio che si respirava in quella piazza solo un israeliano poteva capirlo. La città si ferma, i negozi, i bar e i supermercati chiudono, alla radio mandano le classiche canzoni israeliane, “le più belle, ma anche le più tristi”, dicono.

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Il giorno seguente la vita frenetica di Tel Aviv continua normalmente tranne che per un’altra sirena alle ore 11,00. La città è di nuovo immobile, le macchine si fermano e le persone scendono in strada, in piedi, ad ascoltare questo suono assordante stridere nel silenzio. L’unico che continua a muoversi è imperterrito il mare, come a dimostrare che la natura, quella no, non può essere controllata.

La sera cambia di nuovo scenario, questa volta si festeggia Yom Hazmaut, e i 67 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. La nazione è in festa, la gente scende in strada fino a tarda notte, durante il giorno successivo si usano fare barbecue in giro per i parchi, ovunque sventolano bandiere d’Israele. Dopo il ricordo dei soldati caduti per la difesa dello Stato, si festeggia la sua nascita.

Intorno alle nove di sera al sud del Paese si sente un’altra sirena, stavolta però dal suono e dal significato diverso: un razzo lanciato da Gaza colpisce Israele vicino a Sderot. L’indipendenza israeliana è ricordata dai palestinesi come il giorno della Nakba – la catastrofe. Il razzo caduto nel giorno di festa, preceduto dalla sirena che avverte i cittadini di nascondersi nei rifugi, ci ricorda un’alternanza che spesso ritorna nella tradizione ebraica: il giorno nel matrimonio, il giorno della nascita di una nuova famiglia ebraica, si rompe un bicchiere a ricordare la distruzione del Santuario di Gerusalemme. Anche nella felicità, anche nel momento di massima gioia, ci si ferma a pensare alla storia del popolo ebraico, spesso caratterizzata da sofferenze, minacce e oppressioni.

 

Susanna Ascarelli

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