#BlackLivesMatter!

Non è sempre facile o bello fare i conti con la realtà. Spesso ci mette davanti a verità che sarebbe meglio non vedere, lasciare in secondo piano, dimenticare.
E’ solo attraverso un doloroso e difficile lavoro di analisi dei fatti che la realtà si può cambiare e migliorare..da Roma a Ferguson, fino a Tel Aviv.
In un mondo dove le barriere ed i confini diventano sempre più un limite invalicabile tra chi ha accesso a diritti e dignità e chi non può permetterselo; dove nove persone vengono uccise da un suprematista bianco in quello che è solo il più recente degli episodi di violenza razziale e razzista negli Stati Uniti; dove l’Ungheria predispone un muro anti-rifugiati e la schedatura della popolazione ebraica mentre la Francia e l’Italia mercanteggiano su vite umane, il resto del mondo osserva, passivo, nel migliore dei casi preoccupato.
Anche Israele, purtroppo, non è esente da simili, tristissimi, fenomeni.
Poco più di un mese fa infatti, il paese ha assistito alle due prime grandi manifestazioni della comunità Beta Israel nelle strade di Gerusalemme e Tel Aviv.
Le manifestazioni, che hanno visto anche interventi molto energici sui manifestanti da parte della polizia, hanno portato nelle strade delle due più importanti città del Paese la rabbia e la frustrazione di una minoranza, quella etiope, che dal momento del suo arrivo in Israele (attraverso una prima ondata nel 1984 con l’operazione Mose ed una seconda nel 1991 con l’operazione Salomone), ha lamentato non solo il suo mancato assorbimento nella società civile, ma anche inaccettabili e ripetuti trattamenti discriminatori e violenze dovute al colore della pelle.
Gli episodi più recenti di un video, diventato virale online, di due poliziotti che picchiano selvaggiamente un soldato Israeliano di origini etiopi e di un servizio di Channel 2 che mostrava come alcuni residenti di Kiryat Malakhi  promettessero di non vendere o affittare gli appartamenti a famiglie etiopi israeliane, sono solo i più recenti degli episodi che descrivono la situazione di una comunità di circa 125000 persone, il 2% della popolazione complessiva israeliana, che da sempre è stata fatta sentire, sia a livello sociale che religioso, una comunità di ebrei di serie B.
A simili esempi vanno infatti aggiunti gli episodi, simbolici, dei rituali di conversione a cui sono state sottoposte le comunità etiopi al loro arrivo in Israele (rituali che invece non sono stati predisposti per le comunità sovietiche),ed i rifiuti di alcuni(fortunatamente non tutti) ospedali israeliani di accettare donazioni sanguigne di chiunque appartenesse alla comunità Beta Israel per paura che fosse portatore di HIV, oltre che moltissimi episodi di “comune” razzismo.

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Secondo i dati dell’ultimo rapporto JDC, pubblicato nel 2012 dall’Istituto Brookdale di Gerusalemme, la comunità israeliana etiope continua a rimanere indietro in quasi tutti gli indicatori socio-economici, anche se le lacune stanno finalmente diminuendo in alcuni settori.
I dati mostrano che gli israeliani etiopi hanno maggiori probabilità di abbandonare la scuola superiore e meno probabilità di frequentare l’università del resto della popolazione israeliana. Essi hanno meno probabilità di essere assunti, e, a parità di mansione, guadagnano molto meno rispetto ai loro coetanei. I tassi di povertà poi, sono molto più alti della media tra gli appartenenti alla comunità Beta Israel, e,  sebbene si arruolino nell’esercito in percentuale maggiore rispetto agli altri israeliani, il loro tasso di dimissione precoce è notevolmente superiore alla media.
A livello pubblico poi, appare critica la mancanza di una struttura politica di riferimento per la comunità etiope israeliana, che aldilà di alcune personalità ed episodi sporadici non è minimamente inserita nella dimensione pubblica del paese di cui è parte integrante a tutti gli effetti.
Tuttavia, il rapporto JDC mostra anche, ed è questo il dato per iniziare una analisi costruttiva, un tasso di mobilità sociale molto più alto che in passato, specialmente per i membri più giovani della comunità Beta Israel, nati in Israele.
In base a questo, le manifestazioni di Gerusalemme e Tel Aviv, che hanno il grande merito di rompere un silenzio mediatico interno alla società israeliana durato troppo a lungo, vogliono quindi avere un duplice significato: in primo luogo la sacrosanta rabbia e protesta contro gli odiosi crimini di matrice razzista che stanno nuovamente invadendo tutto il mondo (da qui l’uso da parte di molti manifestanti dell’hashtag #BlackLivesMatter, che riprende le proteste di Ferguson),con la richiesta di una condanna univoca da parte di tutto il Paese e di un segnale forte che ponga al centro del dibattito pubblico simili temi e problematiche, e dall’altra, la nascita di una coscienza collettiva nella comunità Beta Israel, con la creazione di una struttura sociale e politica, organica e reale, che possa finalmente riconoscere in maniera sostanziale pari diritti e dignità a tutti i suoi cittadini.
Una necessità questa, non più rimandabile o eludibile, con cui Israele e gli Israeliani dovranno necessariamente fare i conti in modo serio ed onesto, prima che sia troppo tardi.
Quale sarà il futuro di tali proteste solo il tempo potrà dirlo, e molto dipenderà da quale sarà la continuazione di una simile mobilitazione, che dovrà necessariamente diventare permanente e radicalizzarsi nella società israeliana, cercando la voce più forte possibile.
In un Israele sempre più diviso in gruppi separati ed incapaci di comunicare tra loro, la battaglia per i diritti e la dignità dentro una società così meravigliosamente variopinta deve essere assolutamente fondamentale ed imprescindibile, per tutti.

Enrico Campelli

Il muro del pianto e della discordia

Alcuni l’hanno definita una svolta storica ed epocale, altri invece la vedono come l’inizio della fine.
Qualunque siano le posizioni a riguardo, la decisione di domenica scorsa dell’esecutivo Netanyahu di iniziare la costruzione, al Kotel di Gerusalemme, di una zona mista, in cui tutti, indipendentemente dal genere, potranno pregare, è certamente una di quelle notizie destinate ad alimentare lunghe e difficili discussioni nel mondo ebraico.

Il progetto, i cui lavori non inizieranno prima di alcuni mesi, prevede che la nuova sezione, grande circa 900 mq, venga inaugurata nel lato meridionale del Muro, dove adesso vi è un parco archeologico voluto dall’ex ministro per gli affari religiosi Naftali Bennet. Il piano, frutto di lunghe e difficili negoziazioni, prevede che la nuova sezione avrà anche lo stesso ingresso delle due già esistenti(dove invece vige una chiara divisione dei sessi) e godrà di pari visibilità.

Il perché delle moltissime discussioni e polemiche è chiaro e presto detto: si tratta di una decisione che rompe il monopolio ortodosso sugli affari religiosi, riconoscendo di fatto diverse voci in capitolo.
Il gruppo “Le donne del Muro”, legate all’ebraismo riformato e principali artefici di questa svolta, hanno infatti ottenuto che la nuova sezione non sia controllata dagli ortodossi come le altre:
Rav Shmuel Rabinowitz, attualmente custode del Muro del Pianto, non controllerà quindi l’area conosciuta come “upper plaza” e situata al di fuori delle zone ufficiali per le preghiere. Tra le conseguenze concrete, tra le altre, vi è il fatto che d’ora in poi sarà quindi possibile tenere nell’area designata cerimonie pubbliche dove uomini e donne potranno sedersi insieme e dove le donne avranno la possibilità di cantare le varie preghiere.

I termini del nuovo accordo prevedono che la zona riceva finanziamenti governativi e operi sotto la gestione di una commissione comprendente rappresentati del Governo, dei movimenti Conservative e Reform, dell’Agenzia Ebraica, delle Federazioni ebraiche del Nord America e del gruppo Women of the Wall.

Definendo la decisione “rivoluzionaria”, Rav Gilad Kariv, direttore esecutivo del movimento Reform in Israele, sottolinea come questa sia la prima volta che il governo israeliano garantisce un riconoscimento ufficiale a movimenti religiosi pluralisti. “Una volta per tutte, il Governo ha messo fine al monopolio ultra-ortodosso del Kotel, e ha stabilito che nel luogo più sacro per il popolo ebraico ci possa essere più di un modo per pregare e legarsi alla tradizione ebraica”.

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In un comunicato congiunto, i leader del movimento mondiale Conservative si sono detti “eccitati di vedere come i nostri sforzi si traducano finalmente in un riconoscimento della diversità e della natura pluralista del popolo ebraico, così come della legittimazione oggi ottenuta dalle correnti Conservative e Reform.”

Ma se da un lato si levano voci ed opinioni entusiaste, non mancano, come sempre in questi casi, le parole di chi invece è contrario a questo cambiamento e alle sue ovvie implicazioni teoriche.

Proprio Rav Shmuel Rabinowitz, responsabile del Kotel, ha dichiarato immediatamente: “La profanazione del nome di Dio che questo gruppo (Donne del Muro, ndr) e i suoi supporter stanno causando è terribile, serviranno anni per porvi rimedio”. “In generale le preghiere, e al Kotel specialmente, devono essere eseguite in accordo con l’Halakhà (la legge religiosa ebraica, ndr) e con le tradizioni ebraiche che si sono tramandate di generazione in generazione”. “Il Kotel continuerà ad essere aperto ad ogni devoto, uomo o donna, ad ogni ora di ogni giorno, con rispetto e devozione alla tradizione ebraica e alla sua eredità, di cui il Muro del Pianto è assoluto simbolo”.

A complicare ulteriormente un dibattito ingarbugliato e delicatissimo, va sottolineato come il nuovo accordo non proibisca esplicitamente alle donne di indossare il Tallit o i Tefillin nella zona tradizionale, (quella cioè in cui vige la separazione tra uomini e donne ed un rito ortodosso) nemmeno quando sarà attiva la nuova sezione del Muro.

Stabilisce però che nelle due sezioni che rimarranno sotto controllo ortodosso, le regole circa le preghiere verranno dettate dall’interpretazione ortodossa della Halakhà e dagli “usi locali” così come intesi dal Rabbinato centrale.

Poiché questi termini sono aperti ad interpretazione all’interno del movimento Ortodosso, non è ancora chiaro se le donne potranno continuare ad indossare Tallit e Tefillin, pratica totalmente rigettata dagli ortodossi, anche quando pregano nella sezione esclusiva per le donne, come le attiviste di “Donne del muro” hanno fatto fino alla recentissima decisione dell’Esecutivo israeliano.

In una nota, il gruppo Donne del Muro ha dichiarato che il nuovo piano per il sito è “il primo passo per la completa uguaglianza femminile al Kotel, il luogo più sacro dell’ebraismo e fondamentale spazio pubblico in Israele”. Il gruppo ha anche dichiarato che la creazione di una terza sezione “egualitaria” del muro “pone in essere un forte precedente per lo status delle donne in Israele: donne come amministratrici di un luogo sacro, come leader, come una forza influente impossibile da ignorare o silenziare”.

Di contro però, una delle leader del gruppo, Shulamit Magnus, staccatasi dal movimento e fondatrice del gruppo “Original Woman of the Wall”, ha dichiarato apertamente di non avere alcuna intenzione di abbandonare la sezione esclusivamente femminile: “non vogliamo prendere nessun ordine dal Gran Rabbinato su come dobbiamo pregare”.

Ad esprimere grandi riserve è stata anche Dr. Hannah Hashkes, membro dell’Executive Commitee dei rabbini del Beit Hillel, un gruppo ortodosso progressista: “è molto positivo che le autorità finalmente capiscano che c è più di un tipo di ebreo nel mondo, ma questo accordo non garantisce nessuna soluzione per le donne ortodosse che vogliono continuare a pregare nella zona esclusivamente femminile ma non in maniera ultra-ortodossa”. “Inoltre, il Kotel dovrebbe essere un luogo sacro unico per tutto il Popolo ebraico, mentre un simile accordo lo trasforma in un insieme di sinagoghe diverse per diversi movimenti.”

 

Moltissimi i punti di vista quindi, e sebbene siano moltissime le sensibilità coinvolte ed il dibattito sia spesso oltremodo acceso, è lecito pensare come una simile situazione, con tutti gli sviluppi che potrà avere e le discussioni che inevitabilmente nei prossimi mesi ci saranno, abbia il merito di sollevare un argomento, quello del pluralismo ebraico, troppo spesso visto come marginale o meramente politico, un dibattito avvisato spesso come un fastidio piuttosto che una reale e stupenda possibilità di crescita per un mondo, quello ebraico, ed un paese, Israele, la cui linfa vitale sono proprio le moltissime anime, fortunatamente diverse e a volte troppo lontane, da cui sono composti e di cui si nutrono quotidianamente.

 

Enrico Campelli

Kikar Rabin

I palazzi intorno a Piazza Malkei Israel, oggi Kikar Rabin, a Tel Aviv, sono costanti testimoni dei momenti più importanti della popolazione di Israele e delle sue sofferenze.

E non solo perché il 4 novembre 1995 hanno assistito all’assassinio di Yitzhak Rabin, e con lui alla morte della speranza nella pace. Quella pace che finalmente sembrava vicina, raggiungibile, e che è stata allontanata con due colpi di pistola .

Le mura dei palazzi di Kikar Rabin, i marciapiedi, i mattoni, se potessero parlare racconterebbero l’omicidio a freddo e crudele a cui hanno assistito, ma  anche il dolore che ogni anno, a Yom HaZikaron, il giorno del Ricordo, si legge negli occhi  delle migliaia di persone che affollano la piazza. Il 4 di Yiar secondo il calendario ebraico, il 22 aprile di questo anno, si sono ricordati tutti caduti in guerra, i soldati e le vittime del terrorismo. La cerimonia ufficiale si svolge al Muro del Pianto a Gerusalemme, ma anche a Tel Aviv, a partire dal suono della sirena durante la quale tutti  si fermano e ascoltano in silenzio, una folla di persone si raduna a Kikar Rabin. Lì si susseguono canzoni e storie di soldati caduti. Quest’anno, con le ferite della guerra contro Hamas della scorsa estate ancora aperte, le tristi storie che ci sono state raccontate erano più toccanti e vive che mai.

Vite di ragazzi ventenni, passioni, desideri, speranze strappate via e lanciate su una folla commossa. Commossa perché i ragazzi caduti sono figli e fratelli di tutti, perché ogni cittadino israeliano, ebreo e non, ha il dovere di svolgere il servizio militare così come lo faranno, a loro volta, i loro figli. Un’ eccezione è fatta per gli arabi israeliani che possono decidere volontariamente se arruolarsi.

Questa è la realtà di Israele, lo strazio che si respirava in quella piazza solo un israeliano poteva capirlo. La città si ferma, i negozi, i bar e i supermercati chiudono, alla radio mandano le classiche canzoni israeliane, “le più belle, ma anche le più tristi”, dicono.

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Il giorno seguente la vita frenetica di Tel Aviv continua normalmente tranne che per un’altra sirena alle ore 11,00. La città è di nuovo immobile, le macchine si fermano e le persone scendono in strada, in piedi, ad ascoltare questo suono assordante stridere nel silenzio. L’unico che continua a muoversi è imperterrito il mare, come a dimostrare che la natura, quella no, non può essere controllata.

La sera cambia di nuovo scenario, questa volta si festeggia Yom Hazmaut, e i 67 anni dalla proclamazione dello Stato d’Israele. La nazione è in festa, la gente scende in strada fino a tarda notte, durante il giorno successivo si usano fare barbecue in giro per i parchi, ovunque sventolano bandiere d’Israele. Dopo il ricordo dei soldati caduti per la difesa dello Stato, si festeggia la sua nascita.

Intorno alle nove di sera al sud del Paese si sente un’altra sirena, stavolta però dal suono e dal significato diverso: un razzo lanciato da Gaza colpisce Israele vicino a Sderot. L’indipendenza israeliana è ricordata dai palestinesi come il giorno della Nakba – la catastrofe. Il razzo caduto nel giorno di festa, preceduto dalla sirena che avverte i cittadini di nascondersi nei rifugi, ci ricorda un’alternanza che spesso ritorna nella tradizione ebraica: il giorno nel matrimonio, il giorno della nascita di una nuova famiglia ebraica, si rompe un bicchiere a ricordare la distruzione del Santuario di Gerusalemme. Anche nella felicità, anche nel momento di massima gioia, ci si ferma a pensare alla storia del popolo ebraico, spesso caratterizzata da sofferenze, minacce e oppressioni.

 

Susanna Ascarelli

Israele, la terra trema

Nei giornali, nelle televisioni italiane e su internet si parla spesso di Israele come di un paese interessato da un conflitto che dura ormai da molti anni. Nel nostro paese invece giungono raramente notizie relative ai terremoti che si verificano in quella zona.

Infatti l’area su cui si trovano Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa è una zona fortemente sismica, ed è stata teatro nel passato di terremoti disastrosi. Di sicuro, rispetto ai due secoli passati, le moderne tecnologie consentono di costruire edifici sempre più sicuri dal punto di vista sismico, ma non sempre le normative tecniche vengono rispettate.

E in Israele alcuni esperti temono l’arrivo del “Big One”, un terremoto di grande magnitudo e capace di provocare molti danni, poiché sono ormai molti anni che nella zona non se ne verifica uno. E’ sempre bene però ribadire che ad oggi non è possibile prevedere quando ci sarà un terremoto, se non in modo probabilistico.

Provo quindi a trovare delle risposte alle domande: La regione in cui si trovano Israele ed i territori palestinesi è una zona ad alta sismicità? Esiste un rischio sismico in questa regione? Come è possibile limitare questo rischio?

Il 1° giugno un terremoto con epicentro nel golfo di Suez (M=4,9) ha scosso la penisola del Sinai, desertica ed in gran parte disabitata, ma è stato avvertito chiaramente nella densamente popolata Eilat (Israele), a 200 km di distanza, senza causare vittime o danni.

E’ noto che sul territorio israeliano è presente la faglia che segna il confine tra la placca africana e placca araba, che si sposta, allontanandosi verso Nord-Est, di circa 3cm/anno. La faglia coincide con la valle del Giordano, prosegue verso Sud con la profonda depressione in cui sorge il Mar Morto e, virando verso Sud-Est, prosegue ancora con il Mar Rosso.
Nella zona della valle del Giordano le due placche scorrono una rispetto all’altra. Per questo motivo il territorio israeliano e della Cisgiordania è interessato da una sismicità medio/alta.

In effetti i terremoti storici confermano questa affermazione. Nel 1837 un sisma con magnitudo stimata tra 7 e 7.1 (da uno studio del 1997 di Ambraseys) e con epicentro in Galilea provocò tra le 6.000 e le 7.000 vittime. Nel 1927 un evento sismico con epicentro nella zona del Mar Morto, con una magnitudo stimata di 6,2-6,25 Richter, provocò più di 500 vittime e danni ingenti nelle città di Gerusalemme, Ramla, Tiberiade e Nablus.

Più recentemente, nel 1997, un terremoto con epicentro nel golfo di Aqaba, in Giordania, di magnitudo 7,3 Richter, provocò 8 vittime, 30 feriti e diversi danni. Nel 2004 ci fu un altro terremoto con epicentro nella zona del Mar Morto, a Sud di Gerico, di magnitudo 5,3 Richter. Fu avvertito anche a Gerusalemme ma per fortuna non ci furono vittime, ma solo danni agli edifici.

Tutti questi terremoti sono stati generati dalla “faglia del Mar Morto” ed hanno quindi avuto luogo nelle sue vicinanze. L’ultimo evento sismico in territorio israeliano è stato registrato il 24 dicembre del 2012, con epicentro a 40 km a Nord di Eilat. Questo ha avuto una magnitudo di 4,3 Richter, e non ha provocato danni.

Possiamo quindi concludere che Israele (e la Cisgiordania) sono zone caratterizzate da una sismicità medio-alta, ovvero i terremoti della zona possono provocare un forte scuotimento del terreno.

Nella figura sottostante è raffigurata l’accelerazione sismica che ha la probabilità di presentarsi del 10% in 50 anni. La mappa è detta di pericolosità sismica. Questa è definita come lo scuotimento del suolo atteso in un dato sito con una certa probabilità di eccedenza in un dato intervallo di tempo, e dipende esclusivamente dalle caratteristiche geologiche e sismo-tettoniche della zona.

La pericolosità è moderata a Tel-Aviv, è un po’ più alta nella parte Est di Gerusalemme, ancora più alta a Haifa mentre la zona con la sismicità più alta è quella a Nord del lago Kinneret. Si può paragonare la sismicità attesa nella zona di Haifa a quella attesa nella zona appenninica abruzzese, ad esempio.

Quando questi terremoti avvengono in zone desertiche, come quello recente del 2004, i danni sono limitati o nulli, anche se la pericolosità è alta. Quando invece l’epicentro è in una zona densamente popolata ed urbanizzata possono esserci dei danni. Se poi gli edifici presenti nella zona sono stati mal progettati o costruiti, oppure per la loro tipologia e modalità di costruzione sono più sensibili agli eventi sismici, allora il terremoto può provocare grandi danni, crolli degli edifici più deboli e vittime. In questo caso si dice che c’è un alto rischio sismico.

Questo dipende non solo dalla pericolosità (quanto è forte il terremoto), ma anche dalla tipologia della struttura e da come sono stati progettati e costruiti gli edifici, dunque dalla loro vulnerabilità. Ed è proprio cercando di diminuire la vulnerabilità degli edifici che si può diminuire il rischio sismico. Infatti il rischio è dato dalla combinazione di pericolosità sismica e vulnerabilità.

Nell’ottobre del 2012, ha riportato YnetNews.com, il comando regionale dell’esercito israeliano ha riferito che circa 95.000 strutture nell’area di Gush Dan, l’area urbanizzata intorno a Tel Aviv, che si estende a Nord fino a Nethanya e a Sud fino ad Ashdod, sono a rischio di crollo nel caso in cui si verificasse un terremoto di magnitudo 7. Infatti, in questa zona il 70% degli edifici sono stati costruiti prima del 1980, e non rispettano le normative antisismiche.

Secondo una ricerca sviluppata dal Ministero delle Costruzioni israeliano, 810.000 abitazioni hanno necessità di essere adeguate, incluse 70.000 in zone ad alto rischio. L’unico modo per diminuire il rischio sismico è quello di adeguare l’edilizia esistente a queste normative. Quasi tutti i progetti di adeguamento sismico degli edifici residenziali sono concentrati in una lista di poche città guidate da Tel Aviv, Ramat Gan, Haifa e Ra’anana, secondo un rapporto del Ministero dell’Interno israeliano pubblicato a febbraio.

Nel 2005 fu varato un piano, chiamato National Master Plan 38, che aveva lo scopo di motivare i costruttori a rinforzare le strutture dal punto di vista sismico, garantendo loro il diritto di aggiungere uno o due piani in più per poi venderli.  Questo permesso si è però scontrato con il diritto che avevano i condomini residenti all’ultimo piano di costruire un piano ulteriore, perciò in molti casi questi ultimi hanno presentato istanza per far valere i propri diritti.

Dal 2005 al febbraio 2013 sono state presentate 1.415 richieste, delle quali solo 880 sono state approvate dalle autorità. Un altro problema è che nessuna richiesta è stata presentata in città come Be’er Sheeva, Eilat, Dimona, Tiberiade, Bet Shean e Zfat. La legge ha di fatto privatizzato la gestione dell’adeguamento sismico, affidandolo ai cittadini, alle imprese, e delegando le decisioni ai tribunali civili, non considerando l’urgenza che questo tipo di interventi deve avere.

Nel frattempo il governo israeliano ha stanziato 4 milioni di dollari per un sistema di allerta per i terremoti: il programma è partito lo scorso anno. Questo tipo di sistema è presente in diversi paesi, come il Canada, gli Stati Uniti, il Giappone, la Turchia e la Romania, e prevede l’installazione di sensori sotterranei che saranno posizionati lungo la faglia della valle del Giordano da Eilat alla Galilea. Il sistema però deve ancora essere acquistato, ed una volta ottenuto non sarà operativo fino al 2016.

Il sistema consentirebbe agli occupanti di un edificio di avere 20-30 secondi per trovare rifugio durante un terremoto, ma non impedirebbe all’evento sismico di provocare danni ingenti alle strutture.

Va dunque sottolineata la necessità di stanziare dei fondi per adeguare dal punto di vista sismico tutti quegli edifici che non rispettano le normative antisismiche, diminuendo la vulnerabilità e dunque il rischio sismico associato. E’ chiaro che la cifra da stanziare sarà di molto superiore a quella necessaria per acquistare il sistema di allarme, ma consentirà di preservare il patrimonio edilizio della regione.

Gabriele Fiorentino

 

 

Fonti

  1. Y. Zaslavsky, M.Rabinovich, N.Perelman, V. Avirav, “Seismic hazard maps in terms of spectral acceleration at periods of 0,2s and 1s for the design response spectrum (two-point method) in the new version of the Israel building code(SI413)”, Novembre 2009, Report no. 522/474/09.
  2. United States Geological Survey’s (USGS), “Israel earthquake information”, “Historic earthquakes”http://earthquake.usgs.gov/earthquakes/world/index.php?region=Israel, http://earthquake.usgs.gov/earthquakes/eqarchives/year/2004/2004_02_11.php.
  3.  Benjamin Peim, “Eastern Mediterranean awaits inevitable big earthquake”, Jerusalem Post, 18/1/2011   http://www.jpost.com/Middle-East/Eastern-Mediterranean-awaits-inevitable-big-earthquake
  4. Saudi geological Survey, http://www.sgs.org.sa/Arabic/Geology/Pages/ArabianShield.aspx
  5. Ambraseys, Nicholas N. (August 1997), “The earthquake of 1 January 1837 in Southern Lebanon and Northern Israel”, Annali di Geofisica (Istituto Nazionale di Geofisica) XL (4): 923–935
  6. Ranit Nahum-Halevy,” How long will it take to earthquake-proof Israel’s smaller cities?”, 3/2/2013, Haaretz http://www.haaretz.com/business/how-long-will-it-take-to-earthquake-proof-israel-s-smaller-cities.premium-1.501019

In viaggio con JCall

In una delle prime riunioni di Haviu et Hayom, che si teneva proprio quando nasceva Jcall Italia, ci siamo trovati a discutere riguardo a una nostra eventuale adesione a tale associazione; ad accomunarci vi era l’auspicio di una risoluzione del conflitto israelo-palestinese sotto il motto “due popoli due stati”. Personalmente, ero tra quelle che promuovevano  l’adesione collettiva a Jcall, la maggioranza ha preferito però rimanere indipendente. Ho così continuato a partecipare assiduamente agli incontri di Haviu e contemporaneamente a seguire attraverso il web le iniziative di Jcall. Solo quest’anno ho avuto finalmente l’occasione di conoscere dal vivo chi fossero gli autori delle tante dichiarazioni grazie alla proposta di un viaggio in Israele e nei territori palestinesi. Accertatami che ci fosse almeno qualche altro giovane disposto a partire con me (temevo l’età media e, a posteriori,  non sbagliavo!) mi sono prenotata.

Al mio rientro posso dire di essere davvero soddisfatta del viaggio intrapreso. Abbiamo ascoltato tutte, o quasi, le voci del conflitto: i palestinesi, gli arabi israeliani e gli israeliani tra cui anche gli abitanti degli insediamenti. Dai primi, incontrati in un centro culturale di Ramallah, abbiamo sentito parlare di un ritorno  dei rifugiati finalmente definito solo simbolico: sanno bene che non torneranno nelle loro case di Haifa o Zfat, pur avendone conservato le chiavi. Sarà lo Stato Palestinese ad accoglierli se vorranno. Alquanto confortanti sono risuonate queste parole, le quali sottintendono un riconoscimento dell’esistenza e dei confini dello Stato d’Israele. Certo abbiamo ascoltato solo palestinesi moderati quali Sam’an Khoury , coredattore dell’iniziativa di Ginevra;  da un esponente di Hamas non c’è dubbio che non avremmo sentito gli stessi discorsi.

Ryad Kabba, direttore del centro per la pace di Givat Haviva, centro di coesione arabo-ebraico situato a Nord Est di Tel Aviv, ci ha raccontato di quanto sdoppiata e scissa sia l’identità degli arabi israeliani: si augurano la nascita di uno Stato Palestinese, ma vogliono restare in Israele partecipando attivamente alla vita politica del paese, come è avvenuto recentemente in occasione delle manifestazioni sociali innescatesi per l’aumentato costo della vita. Kabba ha concluso il suo discorso riassumendo scherzosamente lo spaccato della società israeliana con la frase “Am Israel haim, drusim shomrim, aravim bonim”: gli Ebrei vivono, i Drusi difendono, gli arabi costruiscono.

Momento di sconforto è stata la visita a Gush Etzion, insediamento nei dintorni di Gerusalemme, dove abbiamo potuto dibattere con alcuni abitanti. Ci tengo a raccontare che siamo stati attentamente ad ascoltare ciò che avevano da dirci e che quando qualcuno ha mostrato segni di disapprovazione è stato subito rimproverato dagli organizzatori del viaggio e dalla maggior parte dei partecipanti. L’idea comune che è emersa dai loro discorsi è che vogliono uno stato unico, in cui i palestinesi non possiedano il diritto di voto, “Non possiamo mica trovarci ad avere un primo ministro palestinese!”. “Se vogliono un loro stato se lo vadano a creare in Giordania non qui”, “Noi da qui non ci muoviamo”, queste le loro tesi.

Fortunatamente però c’è chi in Israele è riuscito a farci sentire la speranza. C’è Nitzan Horowitz che abbiamo incontrato durante la visita alla Knesset, parlamentare appartenente al partito Meretz, nelle cui parole mi sono riconosciuta al cento per cento. C’è Ygal Palmor, portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, che ci ha fatto notare che un vento di cambiamento si affaccia sullo scenario israeliano: la telefonata ad Erdogan di Netanyahu, la proposta della Lega Araba;  “Si arriverà alla creazione di questo Stato palestinese, siamo sulla buona strada se saremo intelligenti” dice.

E qui mi rivolgo a coloro che hanno sostenuto che questo viaggio fosse da boicottare prima ancora della partenza, a quelli che pensano che i firmatari di Jcall non dovrebbero essere considerati ebrei; l’appello di Jcall si discosta davvero così tanto dalle dichiarazioni di Ygal Palmor?

 Noemi Di Segni

Israele – Pioggia, esplosioni ed elezioni

Pioggia, esplosioni ed elezioni.

Cosa ha caratterizzato le ultime giornate in Israele? Senza ombra di dubbio la campagna elettorale.

Il 22 gennaio il paese si è completamente fermato ad attendere il risultato della votazioni politiche.

Dopo una giornata ad alta tensione, quando si è verificata un esplosione a Tel Aviv (poi attribuita alla criminalità organizzata locale e non al terrorismo) e dopo il passaggio di una grande ed inusuale perturbazione che ha paralizzato per alcune ore il paese e ha fatto innalzare il livello del lago di Tiberiade come non ci si aspettava, i cittadini si sono immersi nuovamente nel clima politico.

Nonostante il partito di Netanyahu sia ancora il più grande all’interno del parlamento israeliano, per molti questa giornata di fine gennaio provocherà un cambiamento nella politica del paese.

Il suo partito, il Likud, esce ridimensionato dalla tornata elettorale e ciò porterà l’ex primo ministro a dover formare una coalizione comprendente altri partiti per formare una governo che abbia i numeri per gestire il paese.

Molti di coloro che hanno preferito non dare la propria preferenza a Netanyahu hanno contribuito a dare forza all’outsider Yair Lapid, ex star della tv locale che, con il suo partito centrista “Yesh Atid-c’è futuro”, porterà all’interno del parlamento 19 nuovi rappresentanti, formando a sorpresa la seconda forza. Sarà questo nuovo schieramento che, con molta probabilità, confluirà nel governo del Likud.

I cittadini più a destra sperano che questo permetterà a Netanyahu di avere abbastanza forza per portare avanti le sue politiche, mentre chi preferirebbe un paese con più attenzione all’aspetto economico e sociale di tutti i cittadini, si aspetta che sia proprio la formazione di Lapid ad “attenuare” e moderare l’azione dello Stato.

Il partito dei Laburisti dell’”Avoda” non è riuscito a portare abbastanza rappresentanti all’interno della camera per poter cercare di formare una coalizione di centro-sinistra. Questa ipotesi è poi definitivamente tramontata con il rifiuto di Lapid all’invito di Sheli Yachimovich, suo capopartito, a provare a costruire un blocco anti-Likud.

Gli altri partecipanti al gioco delle coalizioni e dei numeri saranno Naftali Benet (partito di destra “HaBait Hayeudi”), Tzipi Livni con il suo nuovo partito di centro “Hatnua”, i partiti rappresentanti degli ultraortodossi come “Shas” (partito dei religiosi di provenienza sefardita), il partito di più accentuata sinistra del Meretz che ha raddoppiato i suoi membri (arrivando a 6 rappresentanti) e i partiti con rappresentanti arabi.

Tra qualche giorno sapremo quale strada prenderà il governo del paese, quali partiti riusciranno a entrare all’interno del governo e quali invece sceglieranno di agire nell’opposizione. Forse sapremo anche se saremo costretti a tornare presto alle urne.

Daniele Di Nepi – twitter: @danieledinepi

Da Israele – cap. I

La vita a Tel Aviv è tornata completamente alla normalità.
Tel Aviv è sempre stata considerata un po’ uno “Stato nello Stato”, una bolla troppo a Sud per essere influenzata da ciò che succede a Nord, e troppo lontana da essere colpita da ciò che succede a Gaza.

Il 15 novembre però questa bolla è scoppiata al suono delle sirene anti-missile, risuonate anche qui in tutta la zona centrale di Israele. Da quel momento è cominciata una settimana sicuramente diversa. La paura che la sirena potesse suonare da un momento all’altro entrava a far parte della quotidianità e gli echi di ciò che succedeva nel sud (Gaza e le città israeliane) e delle morti, palestinesi e israeliane, influenzava tutti: favorevoli e contrari a come ci si approcciava alla “crisi”.
Il dibattito è continuato al termine della settimana con la dichiarazione del cessate il fuoco. Tutti qui in Israele erano sicuri che la situazione del Sud di Israele, sotto costante attacco missilistico terrorista, doveva terminare, ma si sono poi formate diverse opinioni: alcuni erano d’accordo con il cessate il fuoco, vedendo come priorità quella di far terminare le violenze; altri credevano che si dovesse trovare una soluzione per disarmare completamente Hamas e tutti i gruppi terroristici presenti nella striscia di Gaza.
In ogni caso però, il cessate il fuoco ha permesso alla zona di riavvicinarsi ad una situazione più vicina alla normalità, anche se per molti si tratta solo di una situazione temporanea destinata a riaggravarsi con il passare del tempo.
La società israeliana è quindi poi entrata pienamente in due discussioni politiche che hanno monopolizzato i mezzi di comunicazione: La campagna elettorale delle prossime elezioni israeliane e la dichiarazione della Palestina come stato osservatore presso l’ONU.
La campagna elettorale è nel vivo così come i processi di formazione dei diversi partiti e coalizioni che si sfideranno nelle prossime votazioni e ciò che è successo nell’assemblea delle Nazioni Unite è stato sicuramente uno dei fattori che ha influenzato l’opinione pubblica.
Si può essere più o meno d’accordo su come Israele si sia approcciata alla questione, ma è ben più diffusa la convinzione che questa azione politica non cambierà, almeno per il momento, la situazione effettiva sul territorio. Solo il tempo potrà dire se ciò avrà accelerato o rallentato il processo di pace.

Daniele Di Nepi

Twitter: @danieledinepi

Riflessioni di fine novembre

Nei giorni scorsi abbiamo sentito la necessità di incontrarci per poterci scambiare informazioni e confrontarci sulla situazione in Israele, alla ricerca di una verità e di una posizione comune che potesse definire la linea del movimento.
La conclusione a cui siamo giunti è che l’attacco subito dalle cittadine del sud di Israele negli ultimi anni è un dato innegabile, ed è impossibile pensare ad un’ analisi imparziale prescindendo dalla paura e la distruzione che centinaia di razzi lanciati da Gaza hanno inferto alle popolazioni del sud. Ciononostante, ci troviamo nel dubbio di capire quale sia per Israele il modo migliore per difendersi poiché un intervento via terra comunque rischierebbe di non risolvere la situazione, mietendo vittime.

Un impressione comune è che gli organi di stampa italiani abbiano posto l’ accento sul numero di morti non analizzando la complessità del conflitto e le cause che hanno portato ad un mirato attacco israeliano ai vertici del terrorismo di Hamas. Questa linea dei media ha dato adito a numerose strumentalizzazioni da parte di chi non riconosce ad Israele il diritto di difendersi.
Di fronte a questi tristi avvenimenti e a questa escalation di violenza ci sentiamo in dovere di difendere le ragioni di Israele taciute a livello nazionale e internazionale, ci siamo informati e ci informiamo quindi mediante vari mezzi e cerchiamo di diffondere informazioni non distorte da un cieco antisionismo dilagante.
Il nostro sostegno ad Israele non coincide con un sostegno privo di critiche al governo israeliano, l’ operato di questo non è spesso concorde con l’opinione del movimento e dei singoli che lo compongono, ma non mettiamo in dubbio il diritto di Israele ad esistere. Prendiamo infatti le distanze dagli estremismi di entrambi gli schieramenti e ci auspichiamo che nessuno parli più di distruzione dell’ una o dell’ altra parte.
Ci auguriamo inoltre che la tregua attualmente in atto fra Israele e Gaza possa portare a un negoziato di pace e quindi a una pace duratura.

Havi’u et Hayom