Il primo giorno

Oggi è il primo giorno dell’esistenza dello Stato di Israele senza Shimon Peres.

Era lì a combattere già nell’Hagana, prima della fondazione di Israele e poi nel neonato esercito, lottando per stabilire lo stato tra i nemici della guerra di indipendenza.

Era lì a firmare gli accordi di Oslo, a fianco del compagno di partito Rabin e di Arafat, prima di ricevere con loro il Nobel per la Pace.

È stato lì fino alla fine, nei suoi ultimi anni come Presidente simbolo dello Stato di Israele, e poi come guida esterna del paese.

Shimon Peres c’è sempre stato, prendendo per mano la nazione fin dalla sua fondazione,
accompagnandola fino ad suoi ultimi momenti, come un nonno fa col suo nipote.
Ha messo la faccia, e la firma, nei più grandi passi avanti dello Stato.

Da politico di spicco, da Primo Ministro e Presidente, ha vinto molte battaglie per amore di questo paese, ma ne ha anche perse alcune, sempre per amore di Israele.

È rimasto al suo posto, anche durante periodi bui, o quando lo stesso paese che ha contribuito a forgiare sembrava non seguirlo, ma sempre con l’obbiettivo di lasciare questa terra in una situazione migliore rispetto a quando l’ha presa per mano la prima volta.

Ottimista di natura, sguardo sempre volto al futuro più che al passato, sempre verso la pace. Uomo di speranza. L’Hatikwa è stato proprio il suo inno.

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Ho avuto la fortuna e l’onore di incontrarlo un paio di volte e di sentire alcune delle sue parole dal vivo. Una sera, a Kikar Rabin, durante la commemorazione dell’uccisione del Primo Ministro, era più agguerrito del solito: “La pace si fa con il nemico…Non so se arriveremo ad una pace perfetta, ma meglio una pace fredda che una guerra calda… Ero un giovane e ora sono invecchiato, ma spero di essere qui al momento della firma”.

Ci ha insegnato che bisogna tendere la mano sempre, anche quando la mano non ci viene tesa dall’altra parte.

La sua filosofia ed energia lo ha fatto diventare uno dei più fieri ambasciatori di Israele e della pace in tutte le città del mondo.

Ripeteva che se si seguono i propri ideali più che il proprio ego, allora ci si trasforma in grandi uomini. Shimon ha provato a farlo.

Perseguire il proprio ideale a discapito della popolarità o del fine politico lo ha elevato a simbolo di questo paese, ed è merce rara nella politica di oggi.

Ci lascia in eredita una responsabilità importante, come la sua visione sulla nanotecnologia per soffiare nel vento dell’innovazione e l’istituzione del “Centro Peres per la Pace”, per soffiare nel vento della fratellanza tra i popoli della regione.

I suoi progetti, come quello di Saving Children, dove bambini palestinesi vengono curati in ospedali israeliani, ci continueranno a mostrare un possibile futuro di convivenza, e ci lasceranno sperare in una Pace che oggi sembra lontana. (http://www.peres-center.org/saving_children)

Ci lascia un vero ultimo padre fondatore, lasciando un vuoto incolmabile che faticheremo a riempire. Che il suo ricordo sia di benedizione e di esempio.

Daniele Di Nepi
Twitter @danieledinepi

Rabin, the Last Day, di Amos Gitai

La necessità di alcune ricognizioni possibili.

L’ultimo film di Amos Gitai arriva a venti anni dall’accaduto che vuole ricordare: la morte dell’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin a seguito di un attentato da parte di un giovane ultraortodosso dell’estrema destra.

Gitai vuole ricostruire un episodio che ha inciso molto sulla realtà israeliana, “un atto brutale che ha sconvolto la società israeliana” come ha dichiarato in una recente intervista a un giornalista francese il regista. Probabilmente, per proseguire l’indagine cinematografica sul conflitto, il regista aveva la necessità di passare attraverso l’analisi dell’omicidio di Rabin e dei giorni che lo precedettero, o, in altre parole, di mettere a fuoco come sia stato possibile che in uno stato democratico un individuo abbia progettato la morte di un uomo per interrompere un processo di pace di portata storica.

La scena di apertura si offre allo spettatore nei suoi tratti essenziali e sobri: Shimon Peres è seduto in una stanza scura, spoglia di qualsiasi arredo, è al centro della scena ed è intervistato da una giornalista che gli pone alcune domande sulla morte di Rabin e sul tesissimo clima di conflittualità politica dei mesi in cui le trattative per gli accordi di pace vennero rese note. Vi è una elegante corrispondenza tra le parole dell’ex Presidente Peres e la stanza scura e essenziale in cui esse sono fisicamente pronunciate. Le parole sono cariche di solennità e di serietà, di rispetto e di consapevolezza, infine di tristezza, di una tristezza militante e non meramente commemorativa. Dalla testimonianza di Peres, uno dei collaboratori più stretti di Rabin al momento dell’assassinio, il regista inaugura un percorso a ritroso, raccontato nella ricostruzione delle fasi e dei limiti dell’inchiesta che il Governo israeliano commissiona alla Corte Suprema dopo l’omicidio. La testimonianza reale, scelta dal regista, scorre affianco alla  ricostruzione delle testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta del 1995, in un riinvio tra tempo presente e tempo del racconto che ha delle chiare implicazioni con il segnale che Gitai vuole trasmettere circa l’attualità dell’assassinio.

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Aldilà di una notevole perizia filmica – il continuo passaggio da materiale d’archivio a scene ricostruite e girate, i piani sequenza molto lunghi- la motivazione del film sta tutta nella ricognizione che il regista vuole portare a termine: ricognizione di testimoni, dati, materiali, ricordi, immagini, mappe, lettere, libri, ma anche e soprattutto verità.

A questo proposito un’avvertenza è doverosa: il Presidente della Corte Suprema raccoglie questi dati esclusivamente per chiarire la dinamica dell’attentato, il suo svolgimento, al fine di individuare le falle dell’organizzazione amministrativa statale.

Tuttavia, il film lancia un ammonimento. Infatti, i due avvocati che stanno lavorando all’indagine chiedono al giudice che presiede la commissione d’inchiesta di allargare l’orizzonte delle ricerche, giacché per aver accesso alla verità, non è possibile ignorare le derive ideologiche estremiste che alcuni gruppi della destra radicale stavano alimentando all’interno del Paese in quei mesi (e che solo qualche giorno fa sono tornate a occupare le pagine dei giornali, portando sconcerto in seno alla scena politica) e, elemento non secondario, il tipo di risposta che venne dato da parte di alcuni responsabili politici. Il giudice, ligio al suo lavoro e alle rigorose restrizioni che gli sono state imposte, rifiuterà: l’inchiesta, spiega, ha il compito di intraprendere ricerche esclusivamente concernenti il funzionamento, o meglio, il malfunzionamento della macchina statale, anche se questo “non esime l’intera società israeliana dall’obbligo di fare un esame di coscienza collettivo per tentare di rispondere all’esigenza di sapere come si è arrivati all’assassinio di un Primo Ministro” da parte di un estremista.

In un’intervista del 2014 Amos Gitai dice che Rabin fu l’unico politico ad avere avuto il coraggio di dire la verità al suo popolo, di dire che occorreva fare la pace e che per realizzarla occorreva dividere la terra.

Rabin, in virtù dell’impegno assunto una volta salito al governo, si prese la responsabilità di restituire una lettura politica dei fatti veritiera e complessa, ponderata, equa, onesta. Ebbe il coraggio di parlare di reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi, di far avanzare nel Paese idee contrastanti con la tendenza nazionalistica che andava invece diffondendosi e radicalizzandosi in varie forme, incoraggiata del resto anche dalla destra di Likoud e dallo stesso Netanyahu, come le immagini di repertorio inserite nel film dimostrano.

Prima di lasciar andar via gli spettatori, Gitai getta ancora un’inquadratura sul presente, questa volta ambientando la scena finale del film in una Tel Aviv tappezzata di manifesti elettorali della campagna elettorale di Netanyahu.

In Israele oggi è al governo chi nel 1995 ha contribuito al clima di tensione, frutto della campagna denigratoria che per mesi prese di mira Rabin e la sua politica di pace ed esistono ancora gruppi di estrema destra e ultranazionalisti che rimandano con il ricordo agli ultimi giorni di Rabin.

Il regista, così, sembra lanciare un appello a rinnovare quell’esercizio di introspezione che il Presidente della Corte Suprema ritenne necessario per la società intera venti anni fa e sembra compiere quello che all’inchiesta non fu possibile: provare a capire il ruolo svolto dall’ideologia nazionalista nell’assassinio di Rabin.

Gitai ci dice che combattere il pericolo insito nella dialettica estremista della destra radicale, ovvero il modo in cui questa propone di considerare politicamente (o non considerare) l’altro, è una responsabilità collettiva. Si esce dalla visione del film  con la sensazione di essere stati ridestati e riabilitati tutti quanti a vigilare su due punti chiave: che rapporto abbia oggi Israele con le derive nazionaliste e a che punto sia arrivato l’esame di coscienza iniziato nel 1995.

(Il film dura 2h 30 min, di cui il 10% è costituito da materiali di repertorio. Il restante 90% è stato ricostruito fedelmente alle testimonianze che sono rimaste di quanto avvenne sia il giorno della morte, sia durante i giorni dell’inchiesta).

Gaia Litrico

Chi erano gli Jeckes?

“C’è una grande differenza fra gli ebrei di origine tedesca che vivono in Israele e quelli che vengono da altri paesi. Gli ebrei sono ebrei e gli Jeckes sono Jeckes” (Nachum Tim Gidal).

E’ proprio da questa dichiarazione identitaria che muovono le principali domande di questo articolo: chi erano gli Jeckes? Quali i loro rapporti con la Germania e quali con la Palestina? Quali sono i tratti più importanti che costituiscono la loro identità?
Dalle parole di Nachtum Tim Gidal , nato a Monaco nel 1909 ed emigrato in Palestina nel 1930, sembra trasparire chiaramente una particolare consapevolezza nonché una forte rivendicazione della propria origine che lo distinguerebbe radicalmente sia dal resto dei migranti sia dagli originari abitanti della sua nuova terra.
Ma quali sono i tratti distintivi, la scala di valori, la storia, le particolarità, insomma la visione del mondo di questa specifica categoria di tedeschi?

Per rispondere a queste domande partiremo dalla definizione del termine in questione.
Con Jeckes si intendono gli ebrei di origini tedesca che si sono stabiliti in Palestina fra il 1933 e i primi anni della seconda guerra mondiale per sfuggire alla politica del nazionalsocialismo. Per citare alcuni dati statistici nel 1933, anno in cui Hitler salì al potere, gli ebrei tedeschi in Germania erano circa 530.000, ma prima dello scoppio della seconda guerra mondiale circa 55.000 riuscirono a trovare rifugio in Palestina. Alcuni di loro venivano da famiglie ebraiche che si erano stabilite in Germania ormai da generazioni, altri invece costituivano la prima generazione di ebrei tedeschi poiché i loro genitori si erano trasferiti in Germania dall’Europa dell’est.
Il termine Jeckes venne infatti attribuito non solo ai tedeschi, ma anche a chi era originario di altre zone dell’Europa orientale e centrale. Oggi troviamo infatti in Israele numerosi ebrei di origini ceche, ungheresi, ucraine e provenienti da altri paesi la cui storia si è intrecciata con la cultura e con la lingua tedesca, che si definiscono come Jeckes.
Sono varie le denominazioni che identificano gli ebrei emigrati in Palestina a seconda del loro paese di provenienza: per gli ebrei sefarditi si usa l’appellativo Fraenk, per la donna polacca la definizione Polnische Dripke, gli ebrei provenienti dalla Galizia vengono chiamati galizianische Diebe mentre agli ebrei tedeschi viene accostato appunto il termine Jeckes.
Andando poi a scandagliare l’origine etimologica di quest’ultimo singolare e curioso vocabolo, si vedrà che la sua origine è dubbia e sfuggente, e che ha dunque scatenato una vera e propria discussione filologica fra gli studiosi.

Secondo alcuni esso deriverebbe dalla parola tedesca Jacke (= giacca) ed esprimerebbe una certa ironia nei confronti di quegli ebrei che, rifiutandosi di indossare la tradizionale gonna ortodossa, continuavano a portare una giacca corta nonostante il clima mediorientale. Oltre alla già notata ironia, dietro tale etimo si scorgerebbe anche un’accezione lievemente dispregiativa verso questa ostinazione a non abbandonare gli usi e costumi tipici della Germania e dunque all’incapacità di adattarsi ad un nuovo contesto.
Ancora più maligni inoltre quelli che interpretano il termine Jeckes come l’acronimo dell’espressione ebraica Jehudi Kasche Hawana traducibile come “ebreo duro di comprendonio” o “ebreo privo di ingegno”.
Un’ ulteriore etimologia lega l’origine della parola Jecke al carnevale renano, poiché l’organizzatore di tale  manifestazione è chiamato Geck. Quest’ultimo termine veniva usato in modo interscambiabile con il vocabolo Jeck. Tale associazione può anche essere connessa al significato di Geck come giullare da cui deriva anche il significato della figura del “Joker” nel gioco delle carte. Anche se persistono molto dubbi sull’originario significato del lemma in ebraico, è noto che la parola circolasse nei pressi della città di Colonia con il significato di “clown” o di “buffone”. Anche dietro questa ricostruzione etimologica si celerebbe dunque un valore canzonatorio e burlesco.

E’ evidente che, qualsiasi origine si intenda attribuire al termine in questione, ad esso si conferisca in ogni caso un’accezione negativa o quantomeno di carattere ironico e derisorio che poteva essere usata addirittura in modo offensivo e discriminatorio.
Soprattutto nei primi anni del loro soggiorno in Palestina infatti gli ebrei tedeschi incorsero spesso nell’essere etichettati negativamente come poco ironici, ostinati, incapaci di intendere facilmente le situazioni, poco flessibili e per nulla capaci di gestire i cambiamenti. Fra gli esempi si potrebbe ricordare la già citata rinuncia ad abbandonare la giacca nonostante il clima inadeguato, oppure la tendenza ad essere sempre molto precisi e puntuali.
Se da un lato dunque il termine Jeckes condensa in sé tutti questi aspetti piuttosto negativi, dall’altro esso veniva usato anche per indicare una certa precisione, una spiccata puntualità ed infine una notevole affidabilità.
Insomma, il significato attribuito al termine Jecke non fa altro che sintetizzare l’immagine, decisamente stereotipata, di un comportamento avvertito come tipicamente tedesco.

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Nonostante i pregiudizi e le stigmatizzazioni, questa particolare categoria si dimostra essere fortemente legata alla propria identità che tende a restare solida e ben definita nonostante il processo migratorio.
Gli Jeckes formano infatti un gruppo compatto all’interno della società prima ebraico-palestinese poi israeliana, tanto che si potrebbe addirittura parlare di una subcultura.
Gli Jeckes grazie al loro comportamento bizzarro e di certo originale, sono facilmente diventati oggetto, oltre che di pregiudizi e di immagini stereotipate, di sarcastiche e taglienti barzellette delle quali seguono alcuni esempi:

  • Un ebreo residente in Palestina ormai da diverso tempo chiede ad uno che invece vi si è appena trasferito: “Lei è qui perché è mosso da convinzione ideologica o si è mosso dalla Germania?”
  • [probabilmente si tratta di un episodio realmente accaduto]
    Una famiglia vince un frigorifero elettrico ad una lotteria. Si tratta di un elettrodomestico molto moderno e raro per quegli anni. Il frigorifero venne spedito con un furgone da Tel Aviv fino a Naharia nel nord del paese ed arrivò alle due del pomeriggio a casa della fortunata famiglia (ebrei tedeschi emigrati in Palestina). Quando l’autista del furgone suonò il campanello, la padrona di casa, dopo aver aperto la porta in vestaglia, rifiutò di accettare il frigorifero poiché le due del pomeriggio costituivano l’orario di riposo della giornata in cui non era permesso disturbare.

E’ interessante notare che quella che era stata in origine un’espressione offensiva ha poi con il tempo assunto un’accezione positiva tanto che  gli Jeckes oggi si identificano pienamente con questa denominazione dimostrando quindi una certa autoironia.
La parola Jecke è dunque un’etichetta elastica che sintetizza valori, aspetti e sfumature insieme positive e negative.
Oltre alla già citata rigidità, precisione e puntualità, un altro elemento caratterizzante degli Jeckes è il loro profilo linguistico. Essi infatti ebbero molte difficoltà ad imparare l’ebraico che quasi rifiutavano con un certo snobismo. Alcuni fra gli emigrati più anziani non impararono mai la lingua e ancora oggi ci sono membri della comunità le cui conoscenze dell’ebraico sono ancora molto scarse e rudimentali. L’ebraico ed il tedesco sono infatti due lingue molto diverse fra loro: l’una è una lingua semitica, l’altra indoeuropea. A complicare la situazione c’è anche da considerare l’uso di due alfabeti diversi: da un lato l’abjad, dall’altro quello latino.
Gli Jeckes continuano invece a dominare perfettamente la lingua tedesca, che resta senz’altro la loro lingua madre e alla quale si attribuisce il valore ed il prestigio di una grande cultura letteraria, poetica e filosofica.
Il tedesco parlato degli Jeckes ci appare come una lingua estremamente corretta e normalizzata, che sembra essere quindi quasi più vicina alla scrittura che non all’oralità. Tale particolare profilo linguistico, privo delle innovazioni del tedesco contemporaneo, è stato accostata da alcuni studiosi come una lingua vicina al tedesco risalente alla Repubblica di Weimar.
Nonostante le difficoltà degli ebrei tedeschi nell’apprendimento dell’ebraico, gli Jeckes ebbero però curiosamente un ruolo importante nello sviluppo del giornalismo israeliano. Fra i diversi editori, reporter e critici tedeschi basti ricordare Gershom Schocken, il proprietario del quotidiano ebraico Ha’aretz.

Abbiamo fino ad ora delineato l’etimologia, le principali caratteristiche comportamentali, gli usi e i costumi e le particolarità linguistiche degli Jeckes, ma quale era il loro profilo sociale?
Sintetizzando si può affermare che essi non appartenevano ad una classe sociale specifica poiché non è possibile collocarli né al vertice né alla base della piramide economica. Si tratta dunque in linea di massima di una classe media accomunata però da un alto livello di istruzione. La maggior parte degli ebrei tedeschi al momento dell’arrivo in Palestina era in possesso un titolo di studio medio o superiore ed una gran parte di loro disponeva addirittura di un titolo accademico.
L’identità culturale degli Jeckes apparteneva al mondo urbano mitteleuropeo ed i migranti cercarono in ogni modo di riottenere la stessa posizione sociale e lo stesso stile di vita che avevano raggiunto nel paese di origine. Molti portarono con sé quegli oggetti che avevano costituito la realtà delle loro case in Germania: numerosi libri di letteratura tedesca (molti dei quali furono proibiti e bruciati dai nazisti), eleganti mobili di mogano, pianoforti, grammofoni, quadri ed i più ricchi arrivarono addirittura con le loro eleganti automobili.
Per quanto riguarda l’età anagrafica degli Jeckes si data che essi erano più o meno fra i 26 ed i 45 anni nell’anno in cui Hitler salì al potere ed avevano dunque la stessa età o pochi anni di più nel momento dell’arrivo in Palestina.
Oggi dunque questa prima generazione di Jeckes sta lentamente scomparendo, solo pochi di loro sono ancora in vita e le nuove generazioni sembrano essere sempre meno legate al passato e sempre più inserite nel nuovo contesto israeliano. Anche la vitalità della comunità ebraico-tedesca sta ormai tramontando, i patrimoni bibliografici vengono progressivamente svenduti e le tipiche abitazioni degli Jeckes a Tel Aviv sono già sotto la protezione dell’UNESCO.
Attualmente assistiamo dunque ormai ad un processo di fusione fra la cultura ebraico-tedesca e quella israeliana. Anche se alcune iniziative culturali sono ancora attive, come ad esempio il quotidiano in lingua tedesca o gli incontri fra i membri delle associazioni degli ex cittadini di Amburgo, Francoforte o Berlino, le nuove generazioni si identificano ormai come israeliani e non più come tedeschi.

Volendo in conclusione fornire una sintetica definizione, con il termine Jeckes si intendono, con una certa sfumatura ironicamente spregiativa, gli ebrei tedeschi immigrati in Palestina a partire dagli anni trenta. Tale etichetta condensa in sé una serie di valori e di caratteristiche ambivalenti quali rigidità e chiusura, ma anche puntualità, precisione ed affidabilità. Infine un altro centrale elemento che identifica un Jecke è il suo essere di madrelingua tedesca ed il suo rifiuto, o quanto meno la sua difficoltà, ad applicarsi nell’apprendimento dell’ebraico.
Gli Jeckes in quanto migranti, possono essere dunque definiti come delle figure di confine, il cui profilo identitario è il frutto del contatto fra due mondi radicalmente differenti: da un lato l’ormai decadente scenario mitteleuropeo, alle soglie della seconda guerra mondiale, dall’altro invece il medio oriente, agli albori dell’imminente nascita di un nuovo stato.

Maria Francesca Ponzi

25 APRILE, LA FESTA DI TUTTI

Il 25 aprile si festeggia la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Liberazione per la quale hanno lottato migliaia di uomini e donne, vecchi e giovani, spesso pagando con la propria vita, pur di vedere l’Italia libera dagli invasori e i loro desideri e ideali realizzati.

Ce lo hanno ricordato, alla manifestazione svoltasi a Roma organizzata dall’ANPI, i due partigiani saliti sul palco a raccontare la propria storia, un uomo novantacinquenne e una donna di poco più giovane; lo hanno fatto partendo dalle loro origini, umili contadini, operai o madri di famiglia, che hanno fatto una scelta di vita ben precisa. Anche i semplici gesti, ospitare un soldato fuggiasco che bussava alla porta, dividere il pane con chi non ne aveva, sono state tessere piccole ma significative di una decisione pericolosa, ma sentita come un dovere morale prima ancora che politico. E’ la scelta di correre un rischio, rinunciare alla propria sicurezza, o alla possibilità di non vedere, o far finta che nulla stesse accadendo, per schierarsi attivamente dalla parte che si riteneva giusta. Le loro mani tremanti durante il discorso pronunciato a Porta San Paolo, la voce carica d’emozione, l’enfasi coinvolgente, hanno raccontato più delle parole. Parole che, però, non sono mai superflue, e vanno ascoltate, raccolte e tramandate, oggetto prezioso destinato a scomparire. Vanno narrate a chi, con altre bandiere o con fare provocante, cerca di infangare il giorno del 25 aprile, giorno unico per la storia della nostra Italia. E’ dovere di ognuno fare in modo che questa memoria non scompaia.

Tra coloro che hanno lottato per la Liberazione dell’Italia, a fianco dell’esercito alleato, c’era la Brigata Ebraica, un’unità combattente a molti ancora oggi sconosciuta. Ne facevano parte ebrei di origine europea che vivevano in Palestina allora sotto mandato britannico, e prima ancora dalla Polonia, dalla Germania, dall’est Europa e dall’Italia stessa.

“So benissimo che c’è già un gran numero di ebrei nelle nostre forze armate e in quelle americane; ma mi è sembrato opportuno che una unità formata esclusivamente da soldati di questo popolo, che così indescrivibili tormenti ha dovuto patire per colpa dei nazisti, fosse presente come formazione a sé stante fra tutte le forze che si sono riunite per sconfiggere la Germania” è parte del discorso pronunciato da Churchill al Parlamento inglese il 29 settembre 1944. Nasce così la Brigata Ebraica e utilizza dei suoi stemmi e una bandiera distintiva, a righe verticali bianche e azzurre, con una stella di David al centro di colore giallo, bandiera che, solamente in seguito, sarebbe stata d’ispirazione per la creazione della bandiera dello stato d’Israele nel momento della sua proclamazione, nel 1948. Ancora più sconosciuta è in Italia la storia di uno dei comandanti della Brigata Ebraica, Enzo Sereni (Roma 1905 – Dachau 1944), italiano cresciuto con un’educazione politica prima e antifascista poi, che decide, in giovane età, di trasferirsi con la moglie in Palestina in cui fu ideologo e sionista militante, socialista e attivista, e fondò uno dei kibbutzim più grandi: Givat Brenner. Durante la guerra Enzo Sereni si impegnò con l’intelligence inglese e con il Mossad, si fece poi paracadutare in centro Italia, ancora sotto l’invasione occupazione nazista, dove fu catturato, arrestato, deportato a Dachau e ucciso. Diverse opere raccontano la sua gloriosa storia, “Enzo Sereni” della giornalista israeliana Ruth Bondy, e la testimonianza della sua vedova, Ada Ascarelli Sereni, che dopo la sua morte divenne un’attiva sostenitrice dell’emigrazione clandestina in Palestina, Aliah Beth, raccontata ne “I clandestini del mare”. Ada, responsabile del settore italiano, riuscì a far arrivare in Israele quasi 25 mila ebrei negli anni tra il 1945 al 1948. Oggi in Israele un kibbutz porta il nome di Enzo: “Netzer Sereni”, il germoglio di Sereni.

Queste storie, spesso dimenticate, raccontano perché è importante che il 25 aprile, in piazza insieme ai partigiani, sfilino anche le bandiere della Brigata Ebraica, parte attiva nella liberazione dell’Italia. Una piazza che deve essere unita tutta da un ideale comune: l’antifascismo.

Questa non vuole essere una lezione di storia, ma un invito alla lettura; un invito a chi, troppo spesso, si prende uno spazio, inadeguato, per portare avanti battaglie – giuste o ingiuste che siano – nel momento meno opportuno.

Il 25 aprile deve essere ricordata come la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E’ la data che ogni italiano deve avere impressa nella mente, e nel cuore, come la vittoria di donne e uomini che hanno dato la loro vita per salvare l’Italia dall’orrore che stava vivendo.

E’ quindi una vergogna che qualsiasi altro tipo di campagna o propaganda politica venga fatto nel nome del 25 aprile e della Liberazione, è un insulto alla piazza e alla memoria delle persone che per salvare l’Italia hanno dato la propria vita. La piazza dovrebbe essere sgombera di simboli e bandiere che con la Liberazione dell’Italia hanno ben poco in comune.

Il 25 aprile è la festa di tutti perché si ricorda la Liberazione dal nazifascismo, e l’antifascismo è uno dei valori fondamentali e pilastro della nostra Costituzione. Proprio nel “Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza” Piero Calamandrei diceva “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione.”

E’ questo l’invito che mi sento di fare: leggere, studiare, viaggiare, scoprire, ascoltare, tollerare, raccontare e tramandare…

Susanna Ascarelli

Che succede in Brasile?

Nelle manifestazioni di queste ultime settimane, partite dalla città di San Paolo e poi diffusesi in tutto il Brasile, sono confluiti alcune problemi che hanno reso questa protesta la maggiore espressione popolare del paese dalla destituzione  del presidente Collor, all’inizio degli anni Novanta. Uno di questi problemi è rappresentato dall’espansione della classe media: oppressa da una politica economica caratterizzata da alte imposte, la classe media è giunta all’apice dell’insoddisfazione a causa dell’inefficienza e della precarietà dei servizi pubblici, in particolar modo dei trasporti, dei servizi sanitari e dell’istruzione. Inoltre, la corruzione dei politici non ha fatto che aggravare questa situazione di degrado.

Un secondo elemento da prendere in considerazione è il forte aumento dei fenomeni di comunicazione e mobilitazione quasi immediate grazie all’utilizzo della rete, una realtà propria di una nuova generazione di giovani, nata e cresciuta in un contesto di instabilità economica, ma con la prospettiva, seppur difficile, di una scalata socioeconomica. In questo modo, si è creato l’ambiente propizio allo scoppio delle proteste, che sono iniziate con una precisa richiesta: la revoca del rincaro dei biglietti per i trasporti pubblici, aumento che ha colpito direttamente le tasche degli studenti, i principali esponenti di questo movimento; la protesta si è poi rapidamente evoluta con un elenco quasi infinito di richieste da parte della società nei confronti del governo.

Favoriti dalla possibilità di una mobilitazione rapida grazie all’utilizzo dei social network, gli studenti hanno sorpreso il governo e i media tradizionali portando le loro proteste nelle strade. Spesso etichettata come apolitica e futile, questa generazione ha gridato così forte da portare il paese a fermarsi e ad ascoltare. E, cosa forse ancora più importante, è riuscita a stravolgere l’abitudine dei media di screditare le manifestazioni studentesche classificandole come facinorose. è importante sottolineare il merito della leadership del movimento, che è stata in grado di organizzare proteste pacifiche, scoraggiando repressioni esagerate da parte della polizia. 

Il superamento del paradigma, rappresentato da un torpore politico e dallo scetticismo riguardo le trasformazioni di una politica notoriamente corrotta, è stato forte. Il paese ha assistito all’unificazione di una popolazione altamente eterogenea che, dalle copertine dei giornali di tutto il mondo, ha denunciato la falsità dell’immagine di una nazione benestante, che tenta di inserirsi tra i paesi sviluppati ospitando grandi eventi sportivi come i Mondiali di calcio.

Una cosa è chiara: il Brasile si è fermato. Ma il momento è delicato e incerto. Proprio ora che si intravede una possibilità unica di ribaltare un quadro politico corrotto non si ha ancora la certezza che la popolazione, di fatto, abbia raggiunto quella maturità politica necessaria a non lasciarsi trascinare  dai partiti che, sin dalla dittatura militare, hanno trasformato la leadership al governo, sfruttando il paese da decenni.

Renata TedeschiSan Paolo

Traduzione a cura di Raffaella Toscano

Di seguito il testo in lingua originale.

As manifestações que se iniciaram na cidade de São Paulo, e posteriormente se espalharam por todo o Brasil, combinaram alguns pontos que resultaram na maior expressão popular do país desde o Impeachment do presidente Collor, no início da década de noventa. Um deles pode ser expansão da classe média. Oprimida por políticas econômicas de altos impostos, essa classe média chegou ao extremo da insatisfação sobre a ineficiência e precariedade dos serviços públicos. Dentre os quais, transporte, saúde e educação. A corrupção de políticos somente serviu de combustível a esse desagrado.

Um segundo ponto, deve ser considerada a ascensão do fenômeno da comunicação e da mobilização, em caráter de quase instantaneidade por meio das redes sociais. Aspectos próprios de uma nova geração de jovens, nascida e criada no contexto da estabilidade econômica, com a perspectiva, ainda que difícil, da escalada socioeconômica. Nesse sentido, armou-se o ambiente propício à erupção dos protestos que se iniciaram com uma reivindicação pontual: a revogação do reajuste dos bilhetes de ônibus – que afetou diretamente o bolso dos estudantes, expoentes líderes desse movimento – mas que se desdobrou em uma pauta quase infinita de cobranças da sociedade diante do governo.

Favorecidos pelo potencial de mobilização rápida da mídia social, os estudantes surpreenderam os governantes e a mídia tradicional por levarem às ruas seus protestos. Rotulada muitas vezes como apolítica e fútil, essa geração deu um grito suficientemente alto e forte para fazer o país parar e ouvir. E mais do que isso, conquistou reverter a cultura da mídia de descreditar as manifestações estudantis classificando-as de baderneiras. Importante destacar o mérito da liderança do movimento, que soube articular passeatas pacíficas, desencorajando repressões policiais exageradas.

A quebra do paradigma, antes de adormecimento político e ceticismo quanto a transformações de uma política notoriamente corrupta, foi intensa. O país assistiu à unificação de uma população altamente heterogênea, que estampou nas capas de jornais de todo o mundo a falácia do bem-estar social de uma nação que tenta projetar-se perante os países desenvolvidos, sob a hospedagem de eventos esportivos como a Copa do Mundo.

O que se tem claro é: o Brasil parou. O momento é delicado e incerto. Ao mesmo tempo em que se vê uma possibilidade única de reverter um quadro político deturpado, ainda não se pode ter a certeza de que a população de fato conquistou o amadurecimento político necessário para não se deixar levar por partidos que, desde a ditadura militar, revezam a liderança governamental, explorando o país há décadas.

Renata TedeschiSão Paulo

Istanbul: Occupy Gezi e dintorni

Mi scuso anticipatamente, non solo non sono una giornalista, ma non scrivo mai nulla del genere né credo di avere gli strumenti adatti a fornire un quadro oggettivo della situazione che stiamo vivendo qui oggi in Turchia. Posso però certamente riportare quello che sento in giro, che mi dicono amici turchi ed europei, che sento parlando con la gente e che provo io. Punto di partenza doveroso credo sia una chiarificazione sull’eventuale sensatezza delle manifestazioni, se si tratti ovvero effettivamente di un malcontento diffuso, se davvero alcune azioni del governo minino la libertà individuale e non siano appoggiate dalla popolazione. Ebbene si. Per quella che è la mia esperienza e quel che ho capito, credo si possa dividere il malcontento in due macro-temi per lo meno ad Istanbul, tralasciando la politica internazionale. Uno riguarda la politica economica e sociale, l’altro la vita quotidiana.

La Turchia al momento vive uno sviluppo economico notevole. Mi è capitato più volte di sentir dire che ci si ritiene fortunati a non essere riusciti ad entrare nell’euro, visto da qualcuno come un malato terminale. Il partito di Erdogan al potere, Akp, stando a quello che mi ha detto un amico turco la cui famiglia tutta ne fa parte, ha tessuto negli anni strette relazioni con tutte le sfere del potere, che si tratti di autorità religiose, uomini d’affari o costruttori. In più, pur presentandosi alle elezioni del 2002 come un politico liberale e aperto, sta ora facendo invece sempre più gli interessi di questa rete.

Faccio presente per chi non lo sapesse che questa città è gigantesca e densamente popolata, credo 14 milioni di abitanti conteggiati ufficialmente più non so quanti sparsi che mi si dice facciano arrivare ad un totale di 18. Oltre al Corno d’Oro, dove sguazzano i turisti, e l’asse Taksim-Galata con Istiklal, c’è un mondo brulicante di vita che chi viene per 4 giorni non coglie. Nell’arco dei prossimi anni è previsto che un terzo delle case di Istanbul venga raso al suolo e ricostruito, senza con questo attuare politiche sociali sensate e favorevoli alla popolazione meno abbiente, ma anzi in direzione totalmente opposta.

Tarlabaşı Bulvari a Beyoğlu, ovvero la grande via che parte da Taksim parallela a Istiklal Caddesi, è l’estremo confine  di Tarlabaşı, un’area centralissima da sempre abitata da minoranze, tutt’ora povera, piena di edifici fatiscenti nei cui anfratti viene cucinata l’enorme quantità di Pilav che viene venduto dai carretti della celebre parallela da ragazzini di 12 anni che sniffano da buste di plastica. E’ anche però la faccia vitale del centro dove i transessuali sono tollerati e un micromondo vive di sue dinamiche. La politica del governo prevede lo sgombero e la distruzione di tutta l’area non però fornendo incentivi a chi già l’abita per ottenere nuove sistemazioni, ma cacciando semplicemente gli abitanti.

La città è tutta un cantiere. Dappertutto enormi pareti di lamiera celano lavori in corso e le immagini esterne non rappresentano mai alloggi popolari dignitosi utili ad accogliere la gente cacciata da Tarlabaşı o chi si riversa in città per lavorare o studiare. Si tratta sempre e solo di enormi complessi residenziali, enclave raccolte intorno alla piscina centrale, come il mostruoso complesso Onalti Dokuz Istanbul a Zeytinburnu , la cui stupefacente altezza di 40 piani sul mare ha modificato lo storico skyline della città ed è un pugno nell’occhio perfino per chi guarda il tramonto dal lato asiatico. Già per quello l’indignazione popolare è salita, tanto che i lavori sono stati interrotti, ma quando mesi fa sono andata a fare foto pur mostrando cartellini da studentessa di architettura sono stata cacciata.

Il centro commerciale che dovrebbe sorgere al posto del Parco Gezi poi non solo è un’aberrazione in sé perché distrugge un’area da sempre luogo di ritrovo e manifestazioni libere e polmone verde da preservare nel centro di una zona tanto densamente urbanizzata, ma coincide anche con l’inizio di Istiklal Caddesi, che è la più grande via commerciale della Turchia, peraltro a due fermate di metro da Cevahir Mallesi, il più grande centro commerciale d’Europa. Ovviamente Istanbul non ne ha bisogno. Come non ha bisogno di un’altra parte dello stesso progetto, una nuova enorme moschea. Tanto più che tutto ciò non rispecchia certo un progetto urbano sensato, considerando le dimensioni della città e la già notevole concentrazione umana e commerciale che catalizza le attività in quest’area. Come dice qualche studente Erasmus che tende alla semplificazione, che senso ha vedere il resto della città quando tutto “succede” qui?

E non so allo stesso modo se Istanbul abbia bisogno del cosiddetto secondo Bosforo, un progetto ancora nebuloso che dovrebbe in qualche modo tagliare la terra e creare un altro braccio di mare, e del terzo ponte. Attualmente le sponde asiatica ed europea sono collegate da un servizio continuo di traghetti e da due ponti, che non possono però essere percorsi a piedi. Stando a quello che docenti di architettura all’università mi hanno detto, dietro ai due progetti ci sono le stesse maestranze e gli stessi finanziamenti. Per lungo tempo non è stato dichiarato ufficialmente in quali punti esatti delle sponde il ponte si sarebbe poggiato, per evitare che partisse una corsa folle di speculazione edilizia a ridosso della nuova arteria, il che indica quali interessi ci sono in gioco.

Ora lo so, o almeno in parte. Garipçe, nella zona di Sarıyer, villaggio bellissimo a nord di Istanbul affacciato per metà sul Bosforo e per metà sul Mar Nero, da cui con una scarpinata un po’ ardua si arrivava ad una spiaggia sovrastata dal verde deserta e paradisiaca,è distrutto.

E non mi è neppure chiaro il senso dei ponti in costruzione nel braccio di mare europeo del Corno d’Oro, così tanto vicini l’uno all’altro.

Si fatica a pensare che la solerzia con cui questi interventi vengono portati avanti sia figlia degli stessi organi istituzionali che hanno promesso dopo il terremoto del 2011 a Van, nel sud est del paese, una rapida ricostruzione. A febbraio ho visto gli scheletri delle case. Erano esattamente come devono essere stati all’indomani del terremoto, e nessuna delle famiglie che mi ha ospitato ha ricevuto alcun sostegno economico. Sarà che sono Curdi.

E c’è poi la seconda fetta di malcontento, quello che riguarda il quotidiano, con i provvedimenti piccoli ma regolari e facenti parte di un unico disegno improntato a spingere la Turchia verso un islamismo più rigido e nostalgico dell’impero ottomano  nel quale la popolazione per lo più assolutamente laica non si riconosce affatto. Il fez lo vendono ai turisti, non è un copricapo da usare tutti i giorni. Il provvedimento di pochi giorni fa che vieta la vendita di alcool fra le 22 e le 6 è solo la formalizzazione di un atteggiamento precedente. L’estate scorsa la zona della torre di Galata era un piacevole ritrovo di gente che suonava e beveva ma senza per questo essere molesta, tanto più che ad esempio fumare cose diverse dal tabacco, difficili da trovare e fortemente osteggiate, non è diffuso e la piena visibilità della piazza non avrebbe consentito nulla di particolarmente sconveniente.  Già a fine estate c’erano le transenne ed era diventato proibito sedere per terra. Qualche mese fa che eravamo 5 o 6 persone semplicemente sedute sulle panchine con una birra in mano siamo stati invitati ad andarcene da 3 poliziotti. Inutile dire che mentre discutevamo le birre erano finite e già stati buttati nell’apposito cassonetto i vuoti.

Non credo ci sia dubbio, i motivi per manifestare il dissenso ci sono. Ma la grande partecipazione di questi giorni resta una sorpresa. Normalmente, o almeno nel corso dei 10 mesi che ho trascorso qua, non si manifesta.  Ci si prova certo, ma le manifestazioni a tema strettamente politico non sono gradite. Ci sono banchetti che cercano l’attenzione dei passanti su Istiklal, ma si parla di 10 persone al massimo ogni volta. Se la manifestazione invece è mobile, a Taksim in genere, viene tranquillamente boicottata, in proporzioni di 10 manifestanti e 30 poliziotti. A meno, ovvio, che non si tratti di manifestazioni a tema calcistico. In quel caso la gente si riversa a fiumi con le magliette della squadra su Istiklal, creando a volte problemi si di ordine pubblico, ma senza subire alcun tipo di respingimento.

Finché non è nata la protesta di Gezi Park. A dire il vero il presidio c’era già da un po’, anche perché i lavori nella piazza tutta sono in corso da mesi, ma non aveva  un enorme seguito. Mi spiegava giorni fa un amico turco, alla nostra domanda dopo i primi scontri “perché non vi siete mossi prima?” che in Turchia tante carte e accordi vengono firmati e sottoscritti. Però sono così tanti che non sempre poi hanno esito concreto o immediato. Qui invece stava succedendo.

Mercoledì 29 maggio ho passato la serata in Gezi Park. Non mi sento di chiamarla manifestazione, perché era veramente solo un presidio del tutto pacifico. Tende comprate tutti insieme a 15 lire, musica, qualcuno che si preoccupa di raccogliere in continuazione l’immondizia, un proiettore con filmati dell’archivio storico su Istanbul, i carretti con il Pilav spostati da Istiklal, gente contenta dopo aver piantato nuovi alberelli fin dal giorno prima. Tutto ciò almeno fino alle 4 di mattina, quando sono andata via. Alle 5, precise, organizzate, sono arrivate le forze dell’ordine, a incendiare le tende, usare getti d’acqua e lacrimogeni. Il giorno dopo ci siamo svegliati tutti esterrefatti, ma mai quanto lo siamo stati la sera dopo, quando di nuovo, puntuali, alle 5, sono intervenuti nel parco. Ma stavolta, mi diceva Mehmet che ci ha raggiunto a casa a giorno fatto dopo essere riuscito a defilarsi sperando che gli amici che aveva perso nella confusione fossero riusciti a fare lo stesso, agendo da due lati, e rendendo così ancora più difficile la fuga, tanto più che essendoci i lavori gli ingressi del parco non sono tutti agibili. Fra i tanti, tantissimi feriti all’ospedale, c’erano quelli che scappando avevano cercato di scavalcare un muretto che è caduto a terra con tutte le persone appresso e un ragazzo che ha ricevuto un lacrimogeno direttamente sulla gamba, che era diventata gonfia in modo inquietante. La manifestazione di sabato ha visto risvegliarsi il paese, indignato per il comportamento della polizia che non ora, ma da tempo agisce così. Tantissimi amici turchi, per non parlare dei curdi, denunciano una sistematica vessazione e limitazione della libertà di espressione. E’ poi cosa che impari appena arrivi qua che la polizia non è da chiamare se hai bisogno. Quella volta che tanto gentilmente insistevano per accompagnarmi in macchina alla mia destinazione, preoccupati che andassi a correre all’alba da sola, al mio rifiuto ad andare con loro il giorno dopo a fare una gita sul Bosforo mi hanno scaricata dove eravamo, pericoloso o no.

La partecipazione di sabato 1 giugno è stata una cosa incredibile. Mai, mai vista tanta gente e tanto varia tutta insieme. Più che per le partite di calcio. Già la mattina c’era qualcosa di diverso nell’aria, un fermento nuovo e uno stato d’allerta generale. I bus da e per gli aeroporti limitavano il tragitto parecchio lontano da Taksim, sotto allo stadio. Nel corso del pomeriggio la pressione pacifica della moltitudine composta da persone di tutte le età e condizioni che sfilava o presidiava Taksim e il parco è riuscita a far ottenere la liberazione della piazza. La polizia che stazionava nella zona da giorni se n’è andata, lasciando lo spazio a chi lo ama. Sono rimasta davanti allo stadio con ragazzi che cantavano Bella Ciao in turco, a godermi lo spettacolo del fiume di gente felice che si spostava verso Taksim da un lato e verso Beşiktaş dall’altro. Ad ogni passaggio di mezzi blindati, lanci di bottiglie e cori di gioia ad ogni loro allontanamento, sovrastati di numero. Però ovvio, sembrava troppo facile. Almeno a me. Vivo a Beşiktaş e mi sono incamminata insieme ai manifestanti in quella direzione. Per poi realizzare che la polizia si era semplicemente spostata alla fine del viale. Un continuo andare avanti e indietro, finché la pressione della folla spinta da getti d’acqua non ha creato un tappo. Sono risalita fino al parcheggio di un grande albergo che sta a metà del viale e ho ripreso da sopra l’arrivo del gas lacrimogeno e lo sciame di gente che si sposta. Per fortuna l’albergo ci ha fatti entrare. Brutte scene: gente colpita, un ragazzo cui gli uscieri hanno fornito una sedia a rotelle che guardava fisso, senza pantaloni, con un asciugamano a coprire. Non so cosa gli fosse capitato. Il quartiere è rimasto sotto assedio come lo era stato Taksim i giorni precedenti. Qualche ora dopo ancora camminare verso casa non era facile. La polizia lanciava lacrimogeni nelle stradine, dove i manifestanti a capannelli costruivano barricate. Incredibile la rete umana di assistenza reciproca. Ho passato il tempo con un ragazzo curdo e uno turco, poi con una professionista con le figlie, poi ospitata in due diverse case da studenti e abitanti normali che ti accolgono con aceto da mettere sulla bocca. Tutti in strada riparano sé stessi e contemporaneamente controllano che non ci sia nessuno privo della salvifica spruzzata di una mistura a base di latte sugli occhi. Una coppia anziana doveva uscire da casa a tarda notte non so perché e un gruppo di ragazzi l’ha scortata fin dove era più sicuro. Colpisce come il personale dell’albergo lussuosissimo ci abbia consentito di usare i suoi passaggi interni per sbucare dall’altra parte al sicuro, o come i soldati dell’esercito vicino a Taksim abbiano dato le mascherine antigas ai manifestanti in fuga dalla polizia. Atteggiamento questo che comunque non è scontato. La mia facoltà, meravigliosa, grande, accanto a Gezi Park, non ha aperto le porte a chi scappava qualche giorno fa. Poco prima di tornare a casa mi arriva un messaggio da un turco-tedesco, che giro a dei turchi: alle 3 la polizia carica di nuovo. Nessun esito drammatico per fortuna.

Il giorno dopo il quartiere si è svegliato e normalizzato, di nuovo come sempre in fermento, ma pronto per l’appuntamento successivo. Taksim è libera, pacifico presidio in cui si sta realizzando una eccezionale cooperazione. Chi può va quando può. Chi porta da mangiare, chi dà il cambio per la notte, chi improvvisa spettacoli. Si costruisce di tutto con tutto: librerie con casse della frutta. Beşiktaş in serata però è stata di nuovo luogo di scontri. Qui, fra il viale principale del quartiere e lo stadio sotto a Taksim, c’è l’ufficio di Erdogan. I manifestanti non intendono cedere su questa zona che considerano da liberare. Verso le 8 di sera il viale delle cariche del giorno prima, intasato di gente, è stato di nuovo raggiunto dai blindati. I poliziotti hanno cominciato a tirare lacrimogeni fin dentro le stradine con i ristoranti e la gente fuori. I manifestanti si disperdono ma restano. Molte strade sono bloccate, come lo sono tutt’ora molte delle traverse di Istiklal. Sono momenti strani, con il gas che si sente perfino dalla finestra. Ricambiamo il favore e a gruppi i manifestanti salgono a casa per riprendersi e scendere di nuovo. Tutta la città si unisce in un ritmico e impressionante rumore di protesta, fatto con mestoli e pentole e un suggestivo regolare spegnimento di luci. E’ un unico grande respiro.

Chi non è in strada segue on line e in continuazione ci si scambiano chiamate su cosa succede e dove. E’ stato rubato non so dove un Caterpillar e con quello i manifestanti hanno spinto i blindati indietro. In Asia un gruppo di che sabato ha attraversato il Bosforo a piedi sul ponte resta ora bloccato per un presidio della polizia, ma oggi anche dall’altro lato della città ci si muove. A Kadıköy, uno dei due centri focali dell’abitato in Asia nonché il più antico della città, si è tenuta una manifestazione per chiedere le dimissioni del premier.

Lunedì è giorno lavorativo, ma la protesta non si ferma. E’ ora normale, paziente. Tutti quelli con cui parlo sono sereni e fermi. Si torna dal lavoro, si prende la mascherina, si aspetta la polizia al grido “gel”, vieni. Si aspetta e non si arretra. Quando arriva il getto d’acqua o il gas niente panico, si urla “yavaş”, piano.  Ieri sera fino ad una certa ora solo getti d’acqua però, la polizia ha stretto un accordo di non ostilità per la nottata. Tutti si spostano allora verso Taksim, gruppetti restano a presidiare Beşiktaş. Scontri di nuovo nell’ora tanto cara alla polizia, fra le 3 e le 5, a Gümüşsuyu, dove si erano fermati i blindati. Gli arresti continuano, anche una studentessa Erasmus, finita troppo avanti. Un mio amico ieri sera stava tornando a casa qua a Beşiktaş. Erano in due, lui e un turco. Sono stati fermati dalla polizia alle 3 di notte perché camminavano nella zona fra lo stadio e Kabatas, dove ci sono stati scontri l’altro ieri. Sono stati arrestati e fatti sedere. Lui ha mostrato i documenti e come studente straniero gli è stato consentito di andarsene. Però mentre cercava un taxi se la sono presa di nuovo con lui. Non sappiamo come sia andata ai turchi che sono rimasti.

La polizia sta diventando chiaramente più tesa. La gente però non sembra avere paura. Vedo persone veramente normali, qualcosa a coprire il volto che non è un vezzo da rivoltoso incosciente, è la protezione dal gas. Sembra essere sparito quel velo di accondiscendenza che copriva le cose. Le persone fuori sono tante. Negli annunci e negli slogan se ne parla: siamo spalla a spalla. Meno paura di parlare, come ormai era da tempo, meno paura di stare fuori. Diritto a restare, a non cedere. Non so se è “primavera” o no, ma la portata del dissenso è notevole. Bisognerà trovare una via comune. Il partito all’opposizione cerca di incarnare questo dissenso, ma prima di tutto bisogna far sì che questa base popolare composita resti unita. Chi si oppone all’islamismo retrogrado di Erdogan fregiandosi delle bandiere con Ataturk e inneggiando al suo riformismo laico non può trovare un appoggio duraturo nella grande comunità curda, la cui libertà il padre della patria ha represso con tanta decisione, né dell’esigua comunità armena, quasi sterminata. Sono le 8, vediamo come va stasera.

Valeria Cavinato

Israel got viral

Se v’è qualcosa di certo, al riguardo di En tus tierras bailaré, è che questo trapianto globale di folklore andino il cui ritornello (“Israel, Israel, ¡qué bonito es Israel!”) il villeggiante frastornato udrà risonare gagliardo ai padiglioni di quelle italiche miniature di esposizioni universali che gli oriundi s’ostinano a chiamare dimessamente fiere paesane è―va detto senza indugi―arte. Il lettore che d’agosto affolli altri lidi abbisognerà d’una ricerca in internet. Chiunque, del resto, se ne potrà giovare; giacché anche a voler dire tutto, del video che, a detta d’alcuni, in quaranta milioni hanno visto, non ci si avvicinerebbe neppure a raccontarne la grandezza. Non varrebbero né la minuta descrizione della danza panica dei neo-Breslav sullo sfondo di Wendy, al contempo novella Amarilli e puttina in rosa shocking, che scandisce con sconsolato ed imperfettibile ardore il ritornello sionista; né lo sciorinamento dell’elenco della fauna che il video arruola come puramente dispensabile comparsa (dai lama ad una coppia di annoiati cammelli; dai pappagalli ad un gruppo di primati, uno dei quali lo spettatore attento vedrà rotolarsi con gaia spericolatezza giù per un dosso al minuto 2:57); né, infine, il tentativo di rendere l’intensità dell’Ur-schrei iniziale (“¡No puede ser! ¡No!”), in cui uno degli interpreti prorompe dopo essersi avveduto, grazie ad una serie di interviste mostrate in televisione, della diffusa percezione negativa nei riguardi d’Israele.

Come si diceva, di arte trattasi. E l’arte si dà, nel video, in qualche maniera attraverso (chiedersi se grazie o nonostante sarebbe ozioso) l’interpretazione di tre eroi della música chicha. In primis la Tigresa del Oriente (l’Oriente, s’intende, del Perù), al secolo Judith Bustos, cui la carne di procace sessantenne straripa con generosa oscenità dal costume―appunto―tigrato comprensivo d’artigli posticci, e che chi scrive ammira per la bonomia con cui ha saputo perdonare a Lady Gaga, in ripetute apparizioni pubbliche, l’averne plagiato costume e movenze. In secundis Delfín hasta el fin (aka Delfín Quishpe), ecuadoriano del quale un’intera generazione idolatra il caratteristico passo, la cui esecuzione è debitamente annunziata, nel video, dalla medesima voce galvanizzante che in molti sospettano essere responsabile di ogni annuncio vocale nel subcontinente centro- e sudamericano (cfr. minuto 1:35: ¡“Y ahora el pasito del Deflín!”), e che certamente lo è dell’invito, formulato poco dopo (cfr. minuto 3:30), a “todos: niños, ancianos, maestros, pescadores y fútbolistas, estrella, famoso, panadero o agricultor”, a lasciar fluire l’amore “sin prejuicios”. Infine Wendy Sulca, quattordicenne peruviana sprovvista di nome d’arte, vestale del folklore andino, incarnazione quintessenziale dell’innocente malizia puberale, assurta a fama internazionale, sin dalla (nel suo caso forse meno) tenera età di otto anni, per hits quali La tetita e Papito―dedicata, quest’ultima, al defunto genitore.

Il movente che ha indotto una serie di creatives ebrei a contattare questi tre artisti con un testo di nostalgico e sguaiato amore per un Paese che non hanno mai visto, una musica prodotta dal compositore argentino Gaby Kerpel (del collettivo di musica latina elettronica Zizek) ed un progetto visuale in stile vaquero-teocriteo, per poi montarne artigianalmente gli sforzi in una confezione che appare emersa dalla fucina di un addetto agli audiovisivi ebefrenico del Ministero del Turismo israeliano, rimarrà con tutta probabilità per sempre insondato. La documentata e sussiegosa nota dedicata alla Trimūrti della musica folklorica latinoamericana dall’argentino Página/12 (l’Izvestia del progressismo porteño) scorge nell’impresa, con magistrale intreccio di paternalismo e ideologia, oscure trame di propaganda sionista che avrebbero alterato l’ingenuità del trio. Un più empatico elzeviro della New York Review of Books tira in ballo la sontaghiana nozione di camp, ed esprime commossa ammirazione per il vitalistico ottimismo dei tre. Nei commenti online a quest’articolo qualcuno ricorda l’identificazione, da parte dei missionari gesuiti che giunsero in Perù nel ‘600, di alcune tribù amerinde con le tribù perdute d’Israele, e la diffusione nel Paese, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, dell’evangelismo della Misión israelita del nuevo pacto universal. A chi scrive tutto ciò appare tutto sommato di rilevanza assai relativa. Dinanzi all’opera d’arte non s’ha che da premere, per l’ennesima volta, “Play”.

Emanuel