Rabin, the Last Day, di Amos Gitai

La necessità di alcune ricognizioni possibili.

L’ultimo film di Amos Gitai arriva a venti anni dall’accaduto che vuole ricordare: la morte dell’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin a seguito di un attentato da parte di un giovane ultraortodosso dell’estrema destra.

Gitai vuole ricostruire un episodio che ha inciso molto sulla realtà israeliana, “un atto brutale che ha sconvolto la società israeliana” come ha dichiarato in una recente intervista a un giornalista francese il regista. Probabilmente, per proseguire l’indagine cinematografica sul conflitto, il regista aveva la necessità di passare attraverso l’analisi dell’omicidio di Rabin e dei giorni che lo precedettero, o, in altre parole, di mettere a fuoco come sia stato possibile che in uno stato democratico un individuo abbia progettato la morte di un uomo per interrompere un processo di pace di portata storica.

La scena di apertura si offre allo spettatore nei suoi tratti essenziali e sobri: Shimon Peres è seduto in una stanza scura, spoglia di qualsiasi arredo, è al centro della scena ed è intervistato da una giornalista che gli pone alcune domande sulla morte di Rabin e sul tesissimo clima di conflittualità politica dei mesi in cui le trattative per gli accordi di pace vennero rese note. Vi è una elegante corrispondenza tra le parole dell’ex Presidente Peres e la stanza scura e essenziale in cui esse sono fisicamente pronunciate. Le parole sono cariche di solennità e di serietà, di rispetto e di consapevolezza, infine di tristezza, di una tristezza militante e non meramente commemorativa. Dalla testimonianza di Peres, uno dei collaboratori più stretti di Rabin al momento dell’assassinio, il regista inaugura un percorso a ritroso, raccontato nella ricostruzione delle fasi e dei limiti dell’inchiesta che il Governo israeliano commissiona alla Corte Suprema dopo l’omicidio. La testimonianza reale, scelta dal regista, scorre affianco alla  ricostruzione delle testimonianze raccolte nel corso dell’inchiesta del 1995, in un riinvio tra tempo presente e tempo del racconto che ha delle chiare implicazioni con il segnale che Gitai vuole trasmettere circa l’attualità dell’assassinio.

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Aldilà di una notevole perizia filmica – il continuo passaggio da materiale d’archivio a scene ricostruite e girate, i piani sequenza molto lunghi- la motivazione del film sta tutta nella ricognizione che il regista vuole portare a termine: ricognizione di testimoni, dati, materiali, ricordi, immagini, mappe, lettere, libri, ma anche e soprattutto verità.

A questo proposito un’avvertenza è doverosa: il Presidente della Corte Suprema raccoglie questi dati esclusivamente per chiarire la dinamica dell’attentato, il suo svolgimento, al fine di individuare le falle dell’organizzazione amministrativa statale.

Tuttavia, il film lancia un ammonimento. Infatti, i due avvocati che stanno lavorando all’indagine chiedono al giudice che presiede la commissione d’inchiesta di allargare l’orizzonte delle ricerche, giacché per aver accesso alla verità, non è possibile ignorare le derive ideologiche estremiste che alcuni gruppi della destra radicale stavano alimentando all’interno del Paese in quei mesi (e che solo qualche giorno fa sono tornate a occupare le pagine dei giornali, portando sconcerto in seno alla scena politica) e, elemento non secondario, il tipo di risposta che venne dato da parte di alcuni responsabili politici. Il giudice, ligio al suo lavoro e alle rigorose restrizioni che gli sono state imposte, rifiuterà: l’inchiesta, spiega, ha il compito di intraprendere ricerche esclusivamente concernenti il funzionamento, o meglio, il malfunzionamento della macchina statale, anche se questo “non esime l’intera società israeliana dall’obbligo di fare un esame di coscienza collettivo per tentare di rispondere all’esigenza di sapere come si è arrivati all’assassinio di un Primo Ministro” da parte di un estremista.

In un’intervista del 2014 Amos Gitai dice che Rabin fu l’unico politico ad avere avuto il coraggio di dire la verità al suo popolo, di dire che occorreva fare la pace e che per realizzarla occorreva dividere la terra.

Rabin, in virtù dell’impegno assunto una volta salito al governo, si prese la responsabilità di restituire una lettura politica dei fatti veritiera e complessa, ponderata, equa, onesta. Ebbe il coraggio di parlare di reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi, di far avanzare nel Paese idee contrastanti con la tendenza nazionalistica che andava invece diffondendosi e radicalizzandosi in varie forme, incoraggiata del resto anche dalla destra di Likoud e dallo stesso Netanyahu, come le immagini di repertorio inserite nel film dimostrano.

Prima di lasciar andar via gli spettatori, Gitai getta ancora un’inquadratura sul presente, questa volta ambientando la scena finale del film in una Tel Aviv tappezzata di manifesti elettorali della campagna elettorale di Netanyahu.

In Israele oggi è al governo chi nel 1995 ha contribuito al clima di tensione, frutto della campagna denigratoria che per mesi prese di mira Rabin e la sua politica di pace ed esistono ancora gruppi di estrema destra e ultranazionalisti che rimandano con il ricordo agli ultimi giorni di Rabin.

Il regista, così, sembra lanciare un appello a rinnovare quell’esercizio di introspezione che il Presidente della Corte Suprema ritenne necessario per la società intera venti anni fa e sembra compiere quello che all’inchiesta non fu possibile: provare a capire il ruolo svolto dall’ideologia nazionalista nell’assassinio di Rabin.

Gitai ci dice che combattere il pericolo insito nella dialettica estremista della destra radicale, ovvero il modo in cui questa propone di considerare politicamente (o non considerare) l’altro, è una responsabilità collettiva. Si esce dalla visione del film  con la sensazione di essere stati ridestati e riabilitati tutti quanti a vigilare su due punti chiave: che rapporto abbia oggi Israele con le derive nazionaliste e a che punto sia arrivato l’esame di coscienza iniziato nel 1995.

(Il film dura 2h 30 min, di cui il 10% è costituito da materiali di repertorio. Il restante 90% è stato ricostruito fedelmente alle testimonianze che sono rimaste di quanto avvenne sia il giorno della morte, sia durante i giorni dell’inchiesta).

Gaia Litrico

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