Mi scuso anticipatamente, non solo non sono una giornalista, ma non scrivo mai nulla del genere né credo di avere gli strumenti adatti a fornire un quadro oggettivo della situazione che stiamo vivendo qui oggi in Turchia. Posso però certamente riportare quello che sento in giro, che mi dicono amici turchi ed europei, che sento parlando con la gente e che provo io. Punto di partenza doveroso credo sia una chiarificazione sull’eventuale sensatezza delle manifestazioni, se si tratti ovvero effettivamente di un malcontento diffuso, se davvero alcune azioni del governo minino la libertà individuale e non siano appoggiate dalla popolazione. Ebbene si. Per quella che è la mia esperienza e quel che ho capito, credo si possa dividere il malcontento in due macro-temi per lo meno ad Istanbul, tralasciando la politica internazionale. Uno riguarda la politica economica e sociale, l’altro la vita quotidiana.
La Turchia al momento vive uno sviluppo economico notevole. Mi è capitato più volte di sentir dire che ci si ritiene fortunati a non essere riusciti ad entrare nell’euro, visto da qualcuno come un malato terminale. Il partito di Erdogan al potere, Akp, stando a quello che mi ha detto un amico turco la cui famiglia tutta ne fa parte, ha tessuto negli anni strette relazioni con tutte le sfere del potere, che si tratti di autorità religiose, uomini d’affari o costruttori. In più, pur presentandosi alle elezioni del 2002 come un politico liberale e aperto, sta ora facendo invece sempre più gli interessi di questa rete.
Faccio presente per chi non lo sapesse che questa città è gigantesca e densamente popolata, credo 14 milioni di abitanti conteggiati ufficialmente più non so quanti sparsi che mi si dice facciano arrivare ad un totale di 18. Oltre al Corno d’Oro, dove sguazzano i turisti, e l’asse Taksim-Galata con Istiklal, c’è un mondo brulicante di vita che chi viene per 4 giorni non coglie. Nell’arco dei prossimi anni è previsto che un terzo delle case di Istanbul venga raso al suolo e ricostruito, senza con questo attuare politiche sociali sensate e favorevoli alla popolazione meno abbiente, ma anzi in direzione totalmente opposta.
Tarlabaşı Bulvari a Beyoğlu, ovvero la grande via che parte da Taksim parallela a Istiklal Caddesi, è l’estremo confine di Tarlabaşı, un’area centralissima da sempre abitata da minoranze, tutt’ora povera, piena di edifici fatiscenti nei cui anfratti viene cucinata l’enorme quantità di Pilav che viene venduto dai carretti della celebre parallela da ragazzini di 12 anni che sniffano da buste di plastica. E’ anche però la faccia vitale del centro dove i transessuali sono tollerati e un micromondo vive di sue dinamiche. La politica del governo prevede lo sgombero e la distruzione di tutta l’area non però fornendo incentivi a chi già l’abita per ottenere nuove sistemazioni, ma cacciando semplicemente gli abitanti.
La città è tutta un cantiere. Dappertutto enormi pareti di lamiera celano lavori in corso e le immagini esterne non rappresentano mai alloggi popolari dignitosi utili ad accogliere la gente cacciata da Tarlabaşı o chi si riversa in città per lavorare o studiare. Si tratta sempre e solo di enormi complessi residenziali, enclave raccolte intorno alla piscina centrale, come il mostruoso complesso Onalti Dokuz Istanbul a Zeytinburnu , la cui stupefacente altezza di 40 piani sul mare ha modificato lo storico skyline della città ed è un pugno nell’occhio perfino per chi guarda il tramonto dal lato asiatico. Già per quello l’indignazione popolare è salita, tanto che i lavori sono stati interrotti, ma quando mesi fa sono andata a fare foto pur mostrando cartellini da studentessa di architettura sono stata cacciata.
Il centro commerciale che dovrebbe sorgere al posto del Parco Gezi poi non solo è un’aberrazione in sé perché distrugge un’area da sempre luogo di ritrovo e manifestazioni libere e polmone verde da preservare nel centro di una zona tanto densamente urbanizzata, ma coincide anche con l’inizio di Istiklal Caddesi, che è la più grande via commerciale della Turchia, peraltro a due fermate di metro da Cevahir Mallesi, il più grande centro commerciale d’Europa. Ovviamente Istanbul non ne ha bisogno. Come non ha bisogno di un’altra parte dello stesso progetto, una nuova enorme moschea. Tanto più che tutto ciò non rispecchia certo un progetto urbano sensato, considerando le dimensioni della città e la già notevole concentrazione umana e commerciale che catalizza le attività in quest’area. Come dice qualche studente Erasmus che tende alla semplificazione, che senso ha vedere il resto della città quando tutto “succede” qui?
E non so allo stesso modo se Istanbul abbia bisogno del cosiddetto secondo Bosforo, un progetto ancora nebuloso che dovrebbe in qualche modo tagliare la terra e creare un altro braccio di mare, e del terzo ponte. Attualmente le sponde asiatica ed europea sono collegate da un servizio continuo di traghetti e da due ponti, che non possono però essere percorsi a piedi. Stando a quello che docenti di architettura all’università mi hanno detto, dietro ai due progetti ci sono le stesse maestranze e gli stessi finanziamenti. Per lungo tempo non è stato dichiarato ufficialmente in quali punti esatti delle sponde il ponte si sarebbe poggiato, per evitare che partisse una corsa folle di speculazione edilizia a ridosso della nuova arteria, il che indica quali interessi ci sono in gioco.
Ora lo so, o almeno in parte. Garipçe, nella zona di Sarıyer, villaggio bellissimo a nord di Istanbul affacciato per metà sul Bosforo e per metà sul Mar Nero, da cui con una scarpinata un po’ ardua si arrivava ad una spiaggia sovrastata dal verde deserta e paradisiaca,è distrutto.
E non mi è neppure chiaro il senso dei ponti in costruzione nel braccio di mare europeo del Corno d’Oro, così tanto vicini l’uno all’altro.
Si fatica a pensare che la solerzia con cui questi interventi vengono portati avanti sia figlia degli stessi organi istituzionali che hanno promesso dopo il terremoto del 2011 a Van, nel sud est del paese, una rapida ricostruzione. A febbraio ho visto gli scheletri delle case. Erano esattamente come devono essere stati all’indomani del terremoto, e nessuna delle famiglie che mi ha ospitato ha ricevuto alcun sostegno economico. Sarà che sono Curdi.
E c’è poi la seconda fetta di malcontento, quello che riguarda il quotidiano, con i provvedimenti piccoli ma regolari e facenti parte di un unico disegno improntato a spingere la Turchia verso un islamismo più rigido e nostalgico dell’impero ottomano nel quale la popolazione per lo più assolutamente laica non si riconosce affatto. Il fez lo vendono ai turisti, non è un copricapo da usare tutti i giorni. Il provvedimento di pochi giorni fa che vieta la vendita di alcool fra le 22 e le 6 è solo la formalizzazione di un atteggiamento precedente. L’estate scorsa la zona della torre di Galata era un piacevole ritrovo di gente che suonava e beveva ma senza per questo essere molesta, tanto più che ad esempio fumare cose diverse dal tabacco, difficili da trovare e fortemente osteggiate, non è diffuso e la piena visibilità della piazza non avrebbe consentito nulla di particolarmente sconveniente. Già a fine estate c’erano le transenne ed era diventato proibito sedere per terra. Qualche mese fa che eravamo 5 o 6 persone semplicemente sedute sulle panchine con una birra in mano siamo stati invitati ad andarcene da 3 poliziotti. Inutile dire che mentre discutevamo le birre erano finite e già stati buttati nell’apposito cassonetto i vuoti.
Non credo ci sia dubbio, i motivi per manifestare il dissenso ci sono. Ma la grande partecipazione di questi giorni resta una sorpresa. Normalmente, o almeno nel corso dei 10 mesi che ho trascorso qua, non si manifesta. Ci si prova certo, ma le manifestazioni a tema strettamente politico non sono gradite. Ci sono banchetti che cercano l’attenzione dei passanti su Istiklal, ma si parla di 10 persone al massimo ogni volta. Se la manifestazione invece è mobile, a Taksim in genere, viene tranquillamente boicottata, in proporzioni di 10 manifestanti e 30 poliziotti. A meno, ovvio, che non si tratti di manifestazioni a tema calcistico. In quel caso la gente si riversa a fiumi con le magliette della squadra su Istiklal, creando a volte problemi si di ordine pubblico, ma senza subire alcun tipo di respingimento.
Finché non è nata la protesta di Gezi Park. A dire il vero il presidio c’era già da un po’, anche perché i lavori nella piazza tutta sono in corso da mesi, ma non aveva un enorme seguito. Mi spiegava giorni fa un amico turco, alla nostra domanda dopo i primi scontri “perché non vi siete mossi prima?” che in Turchia tante carte e accordi vengono firmati e sottoscritti. Però sono così tanti che non sempre poi hanno esito concreto o immediato. Qui invece stava succedendo.
Mercoledì 29 maggio ho passato la serata in Gezi Park. Non mi sento di chiamarla manifestazione, perché era veramente solo un presidio del tutto pacifico. Tende comprate tutti insieme a 15 lire, musica, qualcuno che si preoccupa di raccogliere in continuazione l’immondizia, un proiettore con filmati dell’archivio storico su Istanbul, i carretti con il Pilav spostati da Istiklal, gente contenta dopo aver piantato nuovi alberelli fin dal giorno prima. Tutto ciò almeno fino alle 4 di mattina, quando sono andata via. Alle 5, precise, organizzate, sono arrivate le forze dell’ordine, a incendiare le tende, usare getti d’acqua e lacrimogeni. Il giorno dopo ci siamo svegliati tutti esterrefatti, ma mai quanto lo siamo stati la sera dopo, quando di nuovo, puntuali, alle 5, sono intervenuti nel parco. Ma stavolta, mi diceva Mehmet che ci ha raggiunto a casa a giorno fatto dopo essere riuscito a defilarsi sperando che gli amici che aveva perso nella confusione fossero riusciti a fare lo stesso, agendo da due lati, e rendendo così ancora più difficile la fuga, tanto più che essendoci i lavori gli ingressi del parco non sono tutti agibili. Fra i tanti, tantissimi feriti all’ospedale, c’erano quelli che scappando avevano cercato di scavalcare un muretto che è caduto a terra con tutte le persone appresso e un ragazzo che ha ricevuto un lacrimogeno direttamente sulla gamba, che era diventata gonfia in modo inquietante. La manifestazione di sabato ha visto risvegliarsi il paese, indignato per il comportamento della polizia che non ora, ma da tempo agisce così. Tantissimi amici turchi, per non parlare dei curdi, denunciano una sistematica vessazione e limitazione della libertà di espressione. E’ poi cosa che impari appena arrivi qua che la polizia non è da chiamare se hai bisogno. Quella volta che tanto gentilmente insistevano per accompagnarmi in macchina alla mia destinazione, preoccupati che andassi a correre all’alba da sola, al mio rifiuto ad andare con loro il giorno dopo a fare una gita sul Bosforo mi hanno scaricata dove eravamo, pericoloso o no.
La partecipazione di sabato 1 giugno è stata una cosa incredibile. Mai, mai vista tanta gente e tanto varia tutta insieme. Più che per le partite di calcio. Già la mattina c’era qualcosa di diverso nell’aria, un fermento nuovo e uno stato d’allerta generale. I bus da e per gli aeroporti limitavano il tragitto parecchio lontano da Taksim, sotto allo stadio. Nel corso del pomeriggio la pressione pacifica della moltitudine composta da persone di tutte le età e condizioni che sfilava o presidiava Taksim e il parco è riuscita a far ottenere la liberazione della piazza. La polizia che stazionava nella zona da giorni se n’è andata, lasciando lo spazio a chi lo ama. Sono rimasta davanti allo stadio con ragazzi che cantavano Bella Ciao in turco, a godermi lo spettacolo del fiume di gente felice che si spostava verso Taksim da un lato e verso Beşiktaş dall’altro. Ad ogni passaggio di mezzi blindati, lanci di bottiglie e cori di gioia ad ogni loro allontanamento, sovrastati di numero. Però ovvio, sembrava troppo facile. Almeno a me. Vivo a Beşiktaş e mi sono incamminata insieme ai manifestanti in quella direzione. Per poi realizzare che la polizia si era semplicemente spostata alla fine del viale. Un continuo andare avanti e indietro, finché la pressione della folla spinta da getti d’acqua non ha creato un tappo. Sono risalita fino al parcheggio di un grande albergo che sta a metà del viale e ho ripreso da sopra l’arrivo del gas lacrimogeno e lo sciame di gente che si sposta. Per fortuna l’albergo ci ha fatti entrare. Brutte scene: gente colpita, un ragazzo cui gli uscieri hanno fornito una sedia a rotelle che guardava fisso, senza pantaloni, con un asciugamano a coprire. Non so cosa gli fosse capitato. Il quartiere è rimasto sotto assedio come lo era stato Taksim i giorni precedenti. Qualche ora dopo ancora camminare verso casa non era facile. La polizia lanciava lacrimogeni nelle stradine, dove i manifestanti a capannelli costruivano barricate. Incredibile la rete umana di assistenza reciproca. Ho passato il tempo con un ragazzo curdo e uno turco, poi con una professionista con le figlie, poi ospitata in due diverse case da studenti e abitanti normali che ti accolgono con aceto da mettere sulla bocca. Tutti in strada riparano sé stessi e contemporaneamente controllano che non ci sia nessuno privo della salvifica spruzzata di una mistura a base di latte sugli occhi. Una coppia anziana doveva uscire da casa a tarda notte non so perché e un gruppo di ragazzi l’ha scortata fin dove era più sicuro. Colpisce come il personale dell’albergo lussuosissimo ci abbia consentito di usare i suoi passaggi interni per sbucare dall’altra parte al sicuro, o come i soldati dell’esercito vicino a Taksim abbiano dato le mascherine antigas ai manifestanti in fuga dalla polizia. Atteggiamento questo che comunque non è scontato. La mia facoltà, meravigliosa, grande, accanto a Gezi Park, non ha aperto le porte a chi scappava qualche giorno fa. Poco prima di tornare a casa mi arriva un messaggio da un turco-tedesco, che giro a dei turchi: alle 3 la polizia carica di nuovo. Nessun esito drammatico per fortuna.
Il giorno dopo il quartiere si è svegliato e normalizzato, di nuovo come sempre in fermento, ma pronto per l’appuntamento successivo. Taksim è libera, pacifico presidio in cui si sta realizzando una eccezionale cooperazione. Chi può va quando può. Chi porta da mangiare, chi dà il cambio per la notte, chi improvvisa spettacoli. Si costruisce di tutto con tutto: librerie con casse della frutta. Beşiktaş in serata però è stata di nuovo luogo di scontri. Qui, fra il viale principale del quartiere e lo stadio sotto a Taksim, c’è l’ufficio di Erdogan. I manifestanti non intendono cedere su questa zona che considerano da liberare. Verso le 8 di sera il viale delle cariche del giorno prima, intasato di gente, è stato di nuovo raggiunto dai blindati. I poliziotti hanno cominciato a tirare lacrimogeni fin dentro le stradine con i ristoranti e la gente fuori. I manifestanti si disperdono ma restano. Molte strade sono bloccate, come lo sono tutt’ora molte delle traverse di Istiklal. Sono momenti strani, con il gas che si sente perfino dalla finestra. Ricambiamo il favore e a gruppi i manifestanti salgono a casa per riprendersi e scendere di nuovo. Tutta la città si unisce in un ritmico e impressionante rumore di protesta, fatto con mestoli e pentole e un suggestivo regolare spegnimento di luci. E’ un unico grande respiro.
Chi non è in strada segue on line e in continuazione ci si scambiano chiamate su cosa succede e dove. E’ stato rubato non so dove un Caterpillar e con quello i manifestanti hanno spinto i blindati indietro. In Asia un gruppo di che sabato ha attraversato il Bosforo a piedi sul ponte resta ora bloccato per un presidio della polizia, ma oggi anche dall’altro lato della città ci si muove. A Kadıköy, uno dei due centri focali dell’abitato in Asia nonché il più antico della città, si è tenuta una manifestazione per chiedere le dimissioni del premier.
Lunedì è giorno lavorativo, ma la protesta non si ferma. E’ ora normale, paziente. Tutti quelli con cui parlo sono sereni e fermi. Si torna dal lavoro, si prende la mascherina, si aspetta la polizia al grido “gel”, vieni. Si aspetta e non si arretra. Quando arriva il getto d’acqua o il gas niente panico, si urla “yavaş”, piano. Ieri sera fino ad una certa ora solo getti d’acqua però, la polizia ha stretto un accordo di non ostilità per la nottata. Tutti si spostano allora verso Taksim, gruppetti restano a presidiare Beşiktaş. Scontri di nuovo nell’ora tanto cara alla polizia, fra le 3 e le 5, a Gümüşsuyu, dove si erano fermati i blindati. Gli arresti continuano, anche una studentessa Erasmus, finita troppo avanti. Un mio amico ieri sera stava tornando a casa qua a Beşiktaş. Erano in due, lui e un turco. Sono stati fermati dalla polizia alle 3 di notte perché camminavano nella zona fra lo stadio e Kabatas, dove ci sono stati scontri l’altro ieri. Sono stati arrestati e fatti sedere. Lui ha mostrato i documenti e come studente straniero gli è stato consentito di andarsene. Però mentre cercava un taxi se la sono presa di nuovo con lui. Non sappiamo come sia andata ai turchi che sono rimasti.
La polizia sta diventando chiaramente più tesa. La gente però non sembra avere paura. Vedo persone veramente normali, qualcosa a coprire il volto che non è un vezzo da rivoltoso incosciente, è la protezione dal gas. Sembra essere sparito quel velo di accondiscendenza che copriva le cose. Le persone fuori sono tante. Negli annunci e negli slogan se ne parla: siamo spalla a spalla. Meno paura di parlare, come ormai era da tempo, meno paura di stare fuori. Diritto a restare, a non cedere. Non so se è “primavera” o no, ma la portata del dissenso è notevole. Bisognerà trovare una via comune. Il partito all’opposizione cerca di incarnare questo dissenso, ma prima di tutto bisogna far sì che questa base popolare composita resti unita. Chi si oppone all’islamismo retrogrado di Erdogan fregiandosi delle bandiere con Ataturk e inneggiando al suo riformismo laico non può trovare un appoggio duraturo nella grande comunità curda, la cui libertà il padre della patria ha represso con tanta decisione, né dell’esigua comunità armena, quasi sterminata. Sono le 8, vediamo come va stasera.
Valeria Cavinato