Un pianto unisono

Un Ebreo, un Italiano, un Rabbino ed una guida, spirituale e non. Rav Elio Toaff era tutto questo. Ebreo, prima di ogni cosa, mettendo la sua storia e la sua tradizione sempre al primo posto.

Italiano, che ha saputo quando era il momento di entrare nella resistenza per liberare il suo paese martoriato dalla guerra.

Rabbino ad Ancona, Venezia e Roma, ma soprattutto una guida ed un punto di riferimento per almeno tre generazioni di Ebrei italiani.

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Una guida coraggiosa, che ha tirato fuori la forza al momento di dover riunire una Comunità Ebraica ferita dopo la seconda guerra mondiale e le sue persecuzioni.

Una Rabbino Capo di Roma che ha dovuto passare, insieme alla sua Comunità, altri momenti duri, come il giorno del tragico attentato del 1982.

Una guida lungimirante, quando ha colto l’importanza di una visita storica, quale quella di Papa Giovanni Paolo II, primo Vescovo di Roma a varcare le porte di una Sinagoga in più di duemila anni.

Oggi piangono tutte le generazioni, compresa la mia, che ha avuto l’onore di conoscerlo, di sentire i suoi insegnamenti e di percepire quanto affetto la gente ha avuto per lui.

La sua figura resterà a lungo indelebile nei cuori di molte persone.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

Portoni

Chi ha frequentato almeno un giorno di studi in una scuola ebraica come me lo sa meglio di chiunque altro.

Da bambini ci siamo abituati a pensare che fosse normale il fatto di essere protetti. Ci siamo abituati a vedere la macchina dei carabinieri davanti al portone della scuola, a vederla all’ingresso della sinagoga, accanto alle transenne che limitano l’accesso durante i giorni di grande affluenza alle preghiere.

Crescendo ci siamo abituati a vedere le forze dell’ordine davanti ad ogni tipo di istituzione ebraica. Siamo abituati a vedere lampeggianti perfino dal finestrino dell’aereo che ci porta in vacanza a Tel Aviv.

Anche in vacanza in giro per l’Europa, abbiamo sempre visto grandi misure di sicurezza prima di andare a visitare un museo ebraico.

Da bambini è sempre stato normale e crescendo abbiamo capito quanto questa protezione, di forze dell’ordine e di volontari, sia importante. Per questo l’abbiamo sempre accettata e sostenuta, e continuiamo a farlo con forza.

Ma è bene chiarire una cosa: una società democratica non dovrebbe permettere che una parte di essa si senta un bersaglio.

Dovrebbe sì difenderla, ma senza dimenticarsi che questo deve rimanere un rimedio temporaneo. La vera sfida dovrebbe essere quella di fare in modo che questo rimedio non sia più necessario.

Dovrebbe difendere le comunità ebraiche con le forze dell’ordine, come fa. Ma non dovrebbe scordarsi come questa non sia la normalità, ma solo un dovuto accorgimento.

Noi ci siamo abituati, ma la società non avrebbe dovuto permettere di farci abituare a questa situazione.

Nel 2015, non dovrebbe essere “normale” dover proteggere dei bambini italiani ed europei all’ingresso delle elementari, o controllare ogni accesso ai luoghi di culto. Non dovrebbe essere accettabile che dei volontari rischino la vita per permettere ad una comunità di professare il proprio culto.

Invece, in qualche modo, questo è entrato a far parte della nostra normalità e, purtroppo, sembra proprio che continuerà a farne parte. E sembra che ora, questa protezione, sia più necessaria che mai.

Sarebbe bene ricordarci che questo non è giusto, prima che diventi “normale” vedere le stesse macchine della polizia davanti ad ogni redazione o chissà in quali altri posti.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

#BeCharlieTomorrow

Giorni difficili. Giorni che ci tengono preoccupati davanti alla Tv o al computer, in attesa di notizie da Parigi. Lontano, ma non troppo.

Una doppia strage colpisce la capitale francese. Dopo la strage dei vignettisti, colpiti per aver dissacrato figure religiose, la strage degli Ebrei, uccisi per il solo fatto di essere Ebrei.

Prontamente partono le gare di solidarietà da parte del popolo francese e di gran parte del resto del mondo: #JesuisCharlie in solidarietà con i vignettisti uccisi e per la libertà di espressione, #Je SuisAhmed, per ricordare il poliziotto mussulmano rimasto ucciso nell’attacco alla redazione e, infine, #JeSuisJuif per le vittime dell’assalto al negozio Kosher.

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Oggi siamo tutti solidali, come è normale che sia. Ma cosa succederà domani?
Come fare in modo che questi buoni propositi non restino solo un hashtag?

La sfida più difficile è infatti quella di ricordarsi di essere Charlie anche domani. Ricordarsi di essere paladini delle diversità e della libertà di espressione anche in futuro, e anche quando sarà difficile.

E’ giusto sottolineare però che viviamo in una società con dei limiti a questa libertà, ed è proprio la definizione di questi limiti a caratterizzare la società stessa.

Dove passa la linea che divide un articolo, magari satirico, molto critico e pungente da un atto di razzismo o antisemitismo?

Definire questa linea è molto difficile. Credo che questa linea venga superata superi quando si smette di criticare una persona per un suo comportamento o una decisione e si comincia a criticare una persona per quello che è.

Godere della libertà di espressione vuol dire essere coscienti che il dibattito va innalzato anche qualora ci trovassimo di fronte a idee molto distanti dalle nostre. Vuol dire rispondere criticando proprio le idee e non necessariamente le persone che le hanno formulate.

Ieri ci siamo accorti che la nostra libertà di espressione e di essere diversi è stata messa in discussione. Forse qualcuno lo aveva capito già da tempo.

Ma la sfida comune è quella di portare avanti la battaglia per l’espressione e la diversità anche domani.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

25 APRILE, LA FESTA DI TUTTI

Il 25 aprile si festeggia la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Liberazione per la quale hanno lottato migliaia di uomini e donne, vecchi e giovani, spesso pagando con la propria vita, pur di vedere l’Italia libera dagli invasori e i loro desideri e ideali realizzati.

Ce lo hanno ricordato, alla manifestazione svoltasi a Roma organizzata dall’ANPI, i due partigiani saliti sul palco a raccontare la propria storia, un uomo novantacinquenne e una donna di poco più giovane; lo hanno fatto partendo dalle loro origini, umili contadini, operai o madri di famiglia, che hanno fatto una scelta di vita ben precisa. Anche i semplici gesti, ospitare un soldato fuggiasco che bussava alla porta, dividere il pane con chi non ne aveva, sono state tessere piccole ma significative di una decisione pericolosa, ma sentita come un dovere morale prima ancora che politico. E’ la scelta di correre un rischio, rinunciare alla propria sicurezza, o alla possibilità di non vedere, o far finta che nulla stesse accadendo, per schierarsi attivamente dalla parte che si riteneva giusta. Le loro mani tremanti durante il discorso pronunciato a Porta San Paolo, la voce carica d’emozione, l’enfasi coinvolgente, hanno raccontato più delle parole. Parole che, però, non sono mai superflue, e vanno ascoltate, raccolte e tramandate, oggetto prezioso destinato a scomparire. Vanno narrate a chi, con altre bandiere o con fare provocante, cerca di infangare il giorno del 25 aprile, giorno unico per la storia della nostra Italia. E’ dovere di ognuno fare in modo che questa memoria non scompaia.

Tra coloro che hanno lottato per la Liberazione dell’Italia, a fianco dell’esercito alleato, c’era la Brigata Ebraica, un’unità combattente a molti ancora oggi sconosciuta. Ne facevano parte ebrei di origine europea che vivevano in Palestina allora sotto mandato britannico, e prima ancora dalla Polonia, dalla Germania, dall’est Europa e dall’Italia stessa.

“So benissimo che c’è già un gran numero di ebrei nelle nostre forze armate e in quelle americane; ma mi è sembrato opportuno che una unità formata esclusivamente da soldati di questo popolo, che così indescrivibili tormenti ha dovuto patire per colpa dei nazisti, fosse presente come formazione a sé stante fra tutte le forze che si sono riunite per sconfiggere la Germania” è parte del discorso pronunciato da Churchill al Parlamento inglese il 29 settembre 1944. Nasce così la Brigata Ebraica e utilizza dei suoi stemmi e una bandiera distintiva, a righe verticali bianche e azzurre, con una stella di David al centro di colore giallo, bandiera che, solamente in seguito, sarebbe stata d’ispirazione per la creazione della bandiera dello stato d’Israele nel momento della sua proclamazione, nel 1948. Ancora più sconosciuta è in Italia la storia di uno dei comandanti della Brigata Ebraica, Enzo Sereni (Roma 1905 – Dachau 1944), italiano cresciuto con un’educazione politica prima e antifascista poi, che decide, in giovane età, di trasferirsi con la moglie in Palestina in cui fu ideologo e sionista militante, socialista e attivista, e fondò uno dei kibbutzim più grandi: Givat Brenner. Durante la guerra Enzo Sereni si impegnò con l’intelligence inglese e con il Mossad, si fece poi paracadutare in centro Italia, ancora sotto l’invasione occupazione nazista, dove fu catturato, arrestato, deportato a Dachau e ucciso. Diverse opere raccontano la sua gloriosa storia, “Enzo Sereni” della giornalista israeliana Ruth Bondy, e la testimonianza della sua vedova, Ada Ascarelli Sereni, che dopo la sua morte divenne un’attiva sostenitrice dell’emigrazione clandestina in Palestina, Aliah Beth, raccontata ne “I clandestini del mare”. Ada, responsabile del settore italiano, riuscì a far arrivare in Israele quasi 25 mila ebrei negli anni tra il 1945 al 1948. Oggi in Israele un kibbutz porta il nome di Enzo: “Netzer Sereni”, il germoglio di Sereni.

Queste storie, spesso dimenticate, raccontano perché è importante che il 25 aprile, in piazza insieme ai partigiani, sfilino anche le bandiere della Brigata Ebraica, parte attiva nella liberazione dell’Italia. Una piazza che deve essere unita tutta da un ideale comune: l’antifascismo.

Questa non vuole essere una lezione di storia, ma un invito alla lettura; un invito a chi, troppo spesso, si prende uno spazio, inadeguato, per portare avanti battaglie – giuste o ingiuste che siano – nel momento meno opportuno.

Il 25 aprile deve essere ricordata come la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E’ la data che ogni italiano deve avere impressa nella mente, e nel cuore, come la vittoria di donne e uomini che hanno dato la loro vita per salvare l’Italia dall’orrore che stava vivendo.

E’ quindi una vergogna che qualsiasi altro tipo di campagna o propaganda politica venga fatto nel nome del 25 aprile e della Liberazione, è un insulto alla piazza e alla memoria delle persone che per salvare l’Italia hanno dato la propria vita. La piazza dovrebbe essere sgombera di simboli e bandiere che con la Liberazione dell’Italia hanno ben poco in comune.

Il 25 aprile è la festa di tutti perché si ricorda la Liberazione dal nazifascismo, e l’antifascismo è uno dei valori fondamentali e pilastro della nostra Costituzione. Proprio nel “Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza” Piero Calamandrei diceva “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione.”

E’ questo l’invito che mi sento di fare: leggere, studiare, viaggiare, scoprire, ascoltare, tollerare, raccontare e tramandare…

Susanna Ascarelli

Alla scoperta della Roma che c’è

“Imparare significa scoprire quello che già sai.”
Richard Bach, Illusioni, 1977

Le parole di Bach sembrano un solido punto da cui partire per descrivere un evento solo apparentemente semplice come Jew maps, la caccia al tesoro ecologica  attraverso i luoghi della Roma ebraica, organizzata dal gruppo  Haviu et Hayom in occasione della Giornata europea della cultura ebraica.
Una idea, prima ancora che un evento, che ha fatto della riscoperta di alcuni luoghi di questa Roma, il suo più importante messaggio.
Una Roma ebraica che non vuole essere separata o a sé stante, una isola lontana, ma che è parte integrante e pulsante di una città vissuta da molti, ebrei e non, che troppo spesso vanno a passo svelto, incuranti dei luoghi che vivono ogni giorno.

Una Roma ebraica che ha quindi il diritto di riprendersi lo spazio che le spetta, che per troppo tempo è stato dato per scontato, senza la necessaria dose di contenuti.
Indovinelli preparati a regola d’arte, una sana competizione alla scoperta di luoghi spesso sconosciuti che ha attratto, nonostante il tempo non completamente favorevole, ben diciotto squadre pronte a lanciarsi in una caccia al tesoro che ha reso speciale l’intera mattinata.

Un mezzo usato, la bicicletta, che coniugava due diverse necessità: quella ecologica, tema centrale dell’edizione di quest’anno della giornata ebraica della cultura, e la volontà precisa, da parte dei ragazzi organizzatori di Haviu et Hayom, di permettere ai partecipanti, non tutti di religione ebraica ,di godere a pieno dei luoghi della caccia al tesoro e della generale cornice fornita dalla giornata della cultura.

Altissimo il gradimento dei moltissimi partecipanti e forte la soddisfazione dei ragazzi che hanno lavorato, a lungo, ad un evento divertente e bello, nuovo ed  interessante per molti, con grande capacità attrattiva, che vuole essere solamente il primo degli eventi da ricordare nella futura Roma ebraica, ancora tutta da costruire .

Enrico Campelli

Caccia al tesoro Jew maps

In occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica del 29 settembre 2013 Haviu et Hayom vi invita alla

CACCIA AL TESORO ALLA SCOPERTA DI ROMA EBRAICA!

La caccia al tesoro avrà la particolare caratteristica di essere una caccia al tesoro ECOLOGICA. Infatti quest’anno la Giornata Europea della Cultura Ebraica ha come tema “Ebraismo e Natura”.

Perché ecologica?

Perché i partecipanti possono compiere spostamenti utilizzando solamente mezzi privi di motore, quali biciclette, pattini a rotelle, monopattini etc. che ciascun partecipante dovrà procurarsi in anticipo.

Lo scopo del gioco sarà quello di fare una foto della squadra davanti a TUTTI i luoghi richiesti, nel minor tempo possibile.

Ora, se sei maggiorenne, trova altri DUE O TRE amici (le squadre possono essere composte da 3 o  4 persone) e formate una squadra, se non hai una squadra comunicacelo e la formeremo noi!!

Per maggiori informazioni visita la pagina di JewMaps

Che succede in Brasile?

Nelle manifestazioni di queste ultime settimane, partite dalla città di San Paolo e poi diffusesi in tutto il Brasile, sono confluiti alcune problemi che hanno reso questa protesta la maggiore espressione popolare del paese dalla destituzione  del presidente Collor, all’inizio degli anni Novanta. Uno di questi problemi è rappresentato dall’espansione della classe media: oppressa da una politica economica caratterizzata da alte imposte, la classe media è giunta all’apice dell’insoddisfazione a causa dell’inefficienza e della precarietà dei servizi pubblici, in particolar modo dei trasporti, dei servizi sanitari e dell’istruzione. Inoltre, la corruzione dei politici non ha fatto che aggravare questa situazione di degrado.

Un secondo elemento da prendere in considerazione è il forte aumento dei fenomeni di comunicazione e mobilitazione quasi immediate grazie all’utilizzo della rete, una realtà propria di una nuova generazione di giovani, nata e cresciuta in un contesto di instabilità economica, ma con la prospettiva, seppur difficile, di una scalata socioeconomica. In questo modo, si è creato l’ambiente propizio allo scoppio delle proteste, che sono iniziate con una precisa richiesta: la revoca del rincaro dei biglietti per i trasporti pubblici, aumento che ha colpito direttamente le tasche degli studenti, i principali esponenti di questo movimento; la protesta si è poi rapidamente evoluta con un elenco quasi infinito di richieste da parte della società nei confronti del governo.

Favoriti dalla possibilità di una mobilitazione rapida grazie all’utilizzo dei social network, gli studenti hanno sorpreso il governo e i media tradizionali portando le loro proteste nelle strade. Spesso etichettata come apolitica e futile, questa generazione ha gridato così forte da portare il paese a fermarsi e ad ascoltare. E, cosa forse ancora più importante, è riuscita a stravolgere l’abitudine dei media di screditare le manifestazioni studentesche classificandole come facinorose. è importante sottolineare il merito della leadership del movimento, che è stata in grado di organizzare proteste pacifiche, scoraggiando repressioni esagerate da parte della polizia. 

Il superamento del paradigma, rappresentato da un torpore politico e dallo scetticismo riguardo le trasformazioni di una politica notoriamente corrotta, è stato forte. Il paese ha assistito all’unificazione di una popolazione altamente eterogenea che, dalle copertine dei giornali di tutto il mondo, ha denunciato la falsità dell’immagine di una nazione benestante, che tenta di inserirsi tra i paesi sviluppati ospitando grandi eventi sportivi come i Mondiali di calcio.

Una cosa è chiara: il Brasile si è fermato. Ma il momento è delicato e incerto. Proprio ora che si intravede una possibilità unica di ribaltare un quadro politico corrotto non si ha ancora la certezza che la popolazione, di fatto, abbia raggiunto quella maturità politica necessaria a non lasciarsi trascinare  dai partiti che, sin dalla dittatura militare, hanno trasformato la leadership al governo, sfruttando il paese da decenni.

Renata TedeschiSan Paolo

Traduzione a cura di Raffaella Toscano

Di seguito il testo in lingua originale.

As manifestações que se iniciaram na cidade de São Paulo, e posteriormente se espalharam por todo o Brasil, combinaram alguns pontos que resultaram na maior expressão popular do país desde o Impeachment do presidente Collor, no início da década de noventa. Um deles pode ser expansão da classe média. Oprimida por políticas econômicas de altos impostos, essa classe média chegou ao extremo da insatisfação sobre a ineficiência e precariedade dos serviços públicos. Dentre os quais, transporte, saúde e educação. A corrupção de políticos somente serviu de combustível a esse desagrado.

Um segundo ponto, deve ser considerada a ascensão do fenômeno da comunicação e da mobilização, em caráter de quase instantaneidade por meio das redes sociais. Aspectos próprios de uma nova geração de jovens, nascida e criada no contexto da estabilidade econômica, com a perspectiva, ainda que difícil, da escalada socioeconômica. Nesse sentido, armou-se o ambiente propício à erupção dos protestos que se iniciaram com uma reivindicação pontual: a revogação do reajuste dos bilhetes de ônibus – que afetou diretamente o bolso dos estudantes, expoentes líderes desse movimento – mas que se desdobrou em uma pauta quase infinita de cobranças da sociedade diante do governo.

Favorecidos pelo potencial de mobilização rápida da mídia social, os estudantes surpreenderam os governantes e a mídia tradicional por levarem às ruas seus protestos. Rotulada muitas vezes como apolítica e fútil, essa geração deu um grito suficientemente alto e forte para fazer o país parar e ouvir. E mais do que isso, conquistou reverter a cultura da mídia de descreditar as manifestações estudantis classificando-as de baderneiras. Importante destacar o mérito da liderança do movimento, que soube articular passeatas pacíficas, desencorajando repressões policiais exageradas.

A quebra do paradigma, antes de adormecimento político e ceticismo quanto a transformações de uma política notoriamente corrupta, foi intensa. O país assistiu à unificação de uma população altamente heterogênea, que estampou nas capas de jornais de todo o mundo a falácia do bem-estar social de uma nação que tenta projetar-se perante os países desenvolvidos, sob a hospedagem de eventos esportivos como a Copa do Mundo.

O que se tem claro é: o Brasil parou. O momento é delicado e incerto. Ao mesmo tempo em que se vê uma possibilidade única de reverter um quadro político deturpado, ainda não se pode ter a certeza de que a população de fato conquistou o amadurecimento político necessário para não se deixar levar por partidos que, desde a ditadura militar, revezam a liderança governamental, explorando o país há décadas.

Renata TedeschiSão Paulo

Un sefardita a Parigi

Tra i più caratteristici al mondo, il quartiere ebraico di Parigi, Le Marais, è un microcosmo dentro la città.

Un reticolo di strade tra Place de la Bastille e il Museo Pompidou ne costituisce il cuore indicando con i nomi delle vie, presenze di antiche sinagoghe(Rue du Temple, Rue vieille du Temple etc…), vecchi mercati e quelli che furono momenti di vita quotidiana.

Abitudini, riti e tradizioni del presente scandiscono le giornate, in un tran tran che si ripete sempre uguale a se stesso, creando la condivisione di un tempo comune a chi popola questo quartiere.

Strade, vicoli e stretti passages conservano alcuni tra gli edifici più antichi della città, testimoni e custodi di uno stile architettonico scomparso nel resto della città a metà ‘800 per via del rinnovamento urbanistico voluto da Napoleone III.

Se l’atmosfera del Marais è inimitabile è altresì vero che a Parigi esistono diverse realtà promotrici di cultura ebraica. Tra queste rientra senza dubbio il Museo Nissim de Camondo, nel XVIII  arrondissement, nei pressi di Montmartre.

La storia di questo museo si snoda negli anni, quasi un secolo, e attraversa il continente europeo dall’oriente al cuore della Francia. Da Istanbul a Parigi.

I Camondo erano una famiglia molto importante di ebrei sefarditi. Collezionisti d’arte nonché fondatori di una delle banche più importanti dell’impero ottomano, furono peraltro ricordati da Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, per aver sostenuto finanziariamente l’unificazione italiana.

Alla fine del secondo impero la famiglia si trasferì da Istanbul a Parigi e Isaac e Moïse Camondo si distinsero come personalità di spicco dell’ambiente artistico della città.

Da questa attitudine collezionistica nasce l’attuale museo, originariamente la casa di Moïse, che fu costruita sullo stile architettonico del piccolo Trianon della reggia di Versailles.

Se non si fosse al corrente che la struttura è di fine ‘800, si potrebbe tranquillamente trascorrere la visita del museo convinti di essere in una dimora settecentesca: mobilio in stile neoclassico, preziose stoffe e tappeti, porcellane di Sevres e numerosissimi quadri di noti pittori del XVII e XVIII secolo offrono un’ eccezionale ricostruzione del modo di vivere di quell’epoca.

Moïse aveva vissuto tra fine ‘800 e inizio ‘900 in un’abitazione tipicamente neoclassica, realizzando un paradossale gioco col tempo e vivificando la memoria di quel periodo ormai tramontato.

Due realtà dislocate nella città che, pur nella loro diversa natura, assolvono un ruolo simile:  tenere lontani dall’oblio pezzi di storia.

Del resto non è forse una peculiarità della cultura ebraica quella di collezionare storie del passato, anche quello più remoto, per farle rivivere nelle generazioni future?

Gaia Litrico

(Pubblicato in versione cartacea su HaTikwà-Organo ufficiale UGEI)

Israele, la terra trema

Nei giornali, nelle televisioni italiane e su internet si parla spesso di Israele come di un paese interessato da un conflitto che dura ormai da molti anni. Nel nostro paese invece giungono raramente notizie relative ai terremoti che si verificano in quella zona.

Infatti l’area su cui si trovano Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa è una zona fortemente sismica, ed è stata teatro nel passato di terremoti disastrosi. Di sicuro, rispetto ai due secoli passati, le moderne tecnologie consentono di costruire edifici sempre più sicuri dal punto di vista sismico, ma non sempre le normative tecniche vengono rispettate.

E in Israele alcuni esperti temono l’arrivo del “Big One”, un terremoto di grande magnitudo e capace di provocare molti danni, poiché sono ormai molti anni che nella zona non se ne verifica uno. E’ sempre bene però ribadire che ad oggi non è possibile prevedere quando ci sarà un terremoto, se non in modo probabilistico.

Provo quindi a trovare delle risposte alle domande: La regione in cui si trovano Israele ed i territori palestinesi è una zona ad alta sismicità? Esiste un rischio sismico in questa regione? Come è possibile limitare questo rischio?

Il 1° giugno un terremoto con epicentro nel golfo di Suez (M=4,9) ha scosso la penisola del Sinai, desertica ed in gran parte disabitata, ma è stato avvertito chiaramente nella densamente popolata Eilat (Israele), a 200 km di distanza, senza causare vittime o danni.

E’ noto che sul territorio israeliano è presente la faglia che segna il confine tra la placca africana e placca araba, che si sposta, allontanandosi verso Nord-Est, di circa 3cm/anno. La faglia coincide con la valle del Giordano, prosegue verso Sud con la profonda depressione in cui sorge il Mar Morto e, virando verso Sud-Est, prosegue ancora con il Mar Rosso.
Nella zona della valle del Giordano le due placche scorrono una rispetto all’altra. Per questo motivo il territorio israeliano e della Cisgiordania è interessato da una sismicità medio/alta.

In effetti i terremoti storici confermano questa affermazione. Nel 1837 un sisma con magnitudo stimata tra 7 e 7.1 (da uno studio del 1997 di Ambraseys) e con epicentro in Galilea provocò tra le 6.000 e le 7.000 vittime. Nel 1927 un evento sismico con epicentro nella zona del Mar Morto, con una magnitudo stimata di 6,2-6,25 Richter, provocò più di 500 vittime e danni ingenti nelle città di Gerusalemme, Ramla, Tiberiade e Nablus.

Più recentemente, nel 1997, un terremoto con epicentro nel golfo di Aqaba, in Giordania, di magnitudo 7,3 Richter, provocò 8 vittime, 30 feriti e diversi danni. Nel 2004 ci fu un altro terremoto con epicentro nella zona del Mar Morto, a Sud di Gerico, di magnitudo 5,3 Richter. Fu avvertito anche a Gerusalemme ma per fortuna non ci furono vittime, ma solo danni agli edifici.

Tutti questi terremoti sono stati generati dalla “faglia del Mar Morto” ed hanno quindi avuto luogo nelle sue vicinanze. L’ultimo evento sismico in territorio israeliano è stato registrato il 24 dicembre del 2012, con epicentro a 40 km a Nord di Eilat. Questo ha avuto una magnitudo di 4,3 Richter, e non ha provocato danni.

Possiamo quindi concludere che Israele (e la Cisgiordania) sono zone caratterizzate da una sismicità medio-alta, ovvero i terremoti della zona possono provocare un forte scuotimento del terreno.

Nella figura sottostante è raffigurata l’accelerazione sismica che ha la probabilità di presentarsi del 10% in 50 anni. La mappa è detta di pericolosità sismica. Questa è definita come lo scuotimento del suolo atteso in un dato sito con una certa probabilità di eccedenza in un dato intervallo di tempo, e dipende esclusivamente dalle caratteristiche geologiche e sismo-tettoniche della zona.

La pericolosità è moderata a Tel-Aviv, è un po’ più alta nella parte Est di Gerusalemme, ancora più alta a Haifa mentre la zona con la sismicità più alta è quella a Nord del lago Kinneret. Si può paragonare la sismicità attesa nella zona di Haifa a quella attesa nella zona appenninica abruzzese, ad esempio.

Quando questi terremoti avvengono in zone desertiche, come quello recente del 2004, i danni sono limitati o nulli, anche se la pericolosità è alta. Quando invece l’epicentro è in una zona densamente popolata ed urbanizzata possono esserci dei danni. Se poi gli edifici presenti nella zona sono stati mal progettati o costruiti, oppure per la loro tipologia e modalità di costruzione sono più sensibili agli eventi sismici, allora il terremoto può provocare grandi danni, crolli degli edifici più deboli e vittime. In questo caso si dice che c’è un alto rischio sismico.

Questo dipende non solo dalla pericolosità (quanto è forte il terremoto), ma anche dalla tipologia della struttura e da come sono stati progettati e costruiti gli edifici, dunque dalla loro vulnerabilità. Ed è proprio cercando di diminuire la vulnerabilità degli edifici che si può diminuire il rischio sismico. Infatti il rischio è dato dalla combinazione di pericolosità sismica e vulnerabilità.

Nell’ottobre del 2012, ha riportato YnetNews.com, il comando regionale dell’esercito israeliano ha riferito che circa 95.000 strutture nell’area di Gush Dan, l’area urbanizzata intorno a Tel Aviv, che si estende a Nord fino a Nethanya e a Sud fino ad Ashdod, sono a rischio di crollo nel caso in cui si verificasse un terremoto di magnitudo 7. Infatti, in questa zona il 70% degli edifici sono stati costruiti prima del 1980, e non rispettano le normative antisismiche.

Secondo una ricerca sviluppata dal Ministero delle Costruzioni israeliano, 810.000 abitazioni hanno necessità di essere adeguate, incluse 70.000 in zone ad alto rischio. L’unico modo per diminuire il rischio sismico è quello di adeguare l’edilizia esistente a queste normative. Quasi tutti i progetti di adeguamento sismico degli edifici residenziali sono concentrati in una lista di poche città guidate da Tel Aviv, Ramat Gan, Haifa e Ra’anana, secondo un rapporto del Ministero dell’Interno israeliano pubblicato a febbraio.

Nel 2005 fu varato un piano, chiamato National Master Plan 38, che aveva lo scopo di motivare i costruttori a rinforzare le strutture dal punto di vista sismico, garantendo loro il diritto di aggiungere uno o due piani in più per poi venderli.  Questo permesso si è però scontrato con il diritto che avevano i condomini residenti all’ultimo piano di costruire un piano ulteriore, perciò in molti casi questi ultimi hanno presentato istanza per far valere i propri diritti.

Dal 2005 al febbraio 2013 sono state presentate 1.415 richieste, delle quali solo 880 sono state approvate dalle autorità. Un altro problema è che nessuna richiesta è stata presentata in città come Be’er Sheeva, Eilat, Dimona, Tiberiade, Bet Shean e Zfat. La legge ha di fatto privatizzato la gestione dell’adeguamento sismico, affidandolo ai cittadini, alle imprese, e delegando le decisioni ai tribunali civili, non considerando l’urgenza che questo tipo di interventi deve avere.

Nel frattempo il governo israeliano ha stanziato 4 milioni di dollari per un sistema di allerta per i terremoti: il programma è partito lo scorso anno. Questo tipo di sistema è presente in diversi paesi, come il Canada, gli Stati Uniti, il Giappone, la Turchia e la Romania, e prevede l’installazione di sensori sotterranei che saranno posizionati lungo la faglia della valle del Giordano da Eilat alla Galilea. Il sistema però deve ancora essere acquistato, ed una volta ottenuto non sarà operativo fino al 2016.

Il sistema consentirebbe agli occupanti di un edificio di avere 20-30 secondi per trovare rifugio durante un terremoto, ma non impedirebbe all’evento sismico di provocare danni ingenti alle strutture.

Va dunque sottolineata la necessità di stanziare dei fondi per adeguare dal punto di vista sismico tutti quegli edifici che non rispettano le normative antisismiche, diminuendo la vulnerabilità e dunque il rischio sismico associato. E’ chiaro che la cifra da stanziare sarà di molto superiore a quella necessaria per acquistare il sistema di allarme, ma consentirà di preservare il patrimonio edilizio della regione.

Gabriele Fiorentino

 

 

Fonti

  1. Y. Zaslavsky, M.Rabinovich, N.Perelman, V. Avirav, “Seismic hazard maps in terms of spectral acceleration at periods of 0,2s and 1s for the design response spectrum (two-point method) in the new version of the Israel building code(SI413)”, Novembre 2009, Report no. 522/474/09.
  2. United States Geological Survey’s (USGS), “Israel earthquake information”, “Historic earthquakes”http://earthquake.usgs.gov/earthquakes/world/index.php?region=Israel, http://earthquake.usgs.gov/earthquakes/eqarchives/year/2004/2004_02_11.php.
  3.  Benjamin Peim, “Eastern Mediterranean awaits inevitable big earthquake”, Jerusalem Post, 18/1/2011   http://www.jpost.com/Middle-East/Eastern-Mediterranean-awaits-inevitable-big-earthquake
  4. Saudi geological Survey, http://www.sgs.org.sa/Arabic/Geology/Pages/ArabianShield.aspx
  5. Ambraseys, Nicholas N. (August 1997), “The earthquake of 1 January 1837 in Southern Lebanon and Northern Israel”, Annali di Geofisica (Istituto Nazionale di Geofisica) XL (4): 923–935
  6. Ranit Nahum-Halevy,” How long will it take to earthquake-proof Israel’s smaller cities?”, 3/2/2013, Haaretz http://www.haaretz.com/business/how-long-will-it-take-to-earthquake-proof-israel-s-smaller-cities.premium-1.501019

Istanbul: Occupy Gezi e dintorni

Mi scuso anticipatamente, non solo non sono una giornalista, ma non scrivo mai nulla del genere né credo di avere gli strumenti adatti a fornire un quadro oggettivo della situazione che stiamo vivendo qui oggi in Turchia. Posso però certamente riportare quello che sento in giro, che mi dicono amici turchi ed europei, che sento parlando con la gente e che provo io. Punto di partenza doveroso credo sia una chiarificazione sull’eventuale sensatezza delle manifestazioni, se si tratti ovvero effettivamente di un malcontento diffuso, se davvero alcune azioni del governo minino la libertà individuale e non siano appoggiate dalla popolazione. Ebbene si. Per quella che è la mia esperienza e quel che ho capito, credo si possa dividere il malcontento in due macro-temi per lo meno ad Istanbul, tralasciando la politica internazionale. Uno riguarda la politica economica e sociale, l’altro la vita quotidiana.

La Turchia al momento vive uno sviluppo economico notevole. Mi è capitato più volte di sentir dire che ci si ritiene fortunati a non essere riusciti ad entrare nell’euro, visto da qualcuno come un malato terminale. Il partito di Erdogan al potere, Akp, stando a quello che mi ha detto un amico turco la cui famiglia tutta ne fa parte, ha tessuto negli anni strette relazioni con tutte le sfere del potere, che si tratti di autorità religiose, uomini d’affari o costruttori. In più, pur presentandosi alle elezioni del 2002 come un politico liberale e aperto, sta ora facendo invece sempre più gli interessi di questa rete.

Faccio presente per chi non lo sapesse che questa città è gigantesca e densamente popolata, credo 14 milioni di abitanti conteggiati ufficialmente più non so quanti sparsi che mi si dice facciano arrivare ad un totale di 18. Oltre al Corno d’Oro, dove sguazzano i turisti, e l’asse Taksim-Galata con Istiklal, c’è un mondo brulicante di vita che chi viene per 4 giorni non coglie. Nell’arco dei prossimi anni è previsto che un terzo delle case di Istanbul venga raso al suolo e ricostruito, senza con questo attuare politiche sociali sensate e favorevoli alla popolazione meno abbiente, ma anzi in direzione totalmente opposta.

Tarlabaşı Bulvari a Beyoğlu, ovvero la grande via che parte da Taksim parallela a Istiklal Caddesi, è l’estremo confine  di Tarlabaşı, un’area centralissima da sempre abitata da minoranze, tutt’ora povera, piena di edifici fatiscenti nei cui anfratti viene cucinata l’enorme quantità di Pilav che viene venduto dai carretti della celebre parallela da ragazzini di 12 anni che sniffano da buste di plastica. E’ anche però la faccia vitale del centro dove i transessuali sono tollerati e un micromondo vive di sue dinamiche. La politica del governo prevede lo sgombero e la distruzione di tutta l’area non però fornendo incentivi a chi già l’abita per ottenere nuove sistemazioni, ma cacciando semplicemente gli abitanti.

La città è tutta un cantiere. Dappertutto enormi pareti di lamiera celano lavori in corso e le immagini esterne non rappresentano mai alloggi popolari dignitosi utili ad accogliere la gente cacciata da Tarlabaşı o chi si riversa in città per lavorare o studiare. Si tratta sempre e solo di enormi complessi residenziali, enclave raccolte intorno alla piscina centrale, come il mostruoso complesso Onalti Dokuz Istanbul a Zeytinburnu , la cui stupefacente altezza di 40 piani sul mare ha modificato lo storico skyline della città ed è un pugno nell’occhio perfino per chi guarda il tramonto dal lato asiatico. Già per quello l’indignazione popolare è salita, tanto che i lavori sono stati interrotti, ma quando mesi fa sono andata a fare foto pur mostrando cartellini da studentessa di architettura sono stata cacciata.

Il centro commerciale che dovrebbe sorgere al posto del Parco Gezi poi non solo è un’aberrazione in sé perché distrugge un’area da sempre luogo di ritrovo e manifestazioni libere e polmone verde da preservare nel centro di una zona tanto densamente urbanizzata, ma coincide anche con l’inizio di Istiklal Caddesi, che è la più grande via commerciale della Turchia, peraltro a due fermate di metro da Cevahir Mallesi, il più grande centro commerciale d’Europa. Ovviamente Istanbul non ne ha bisogno. Come non ha bisogno di un’altra parte dello stesso progetto, una nuova enorme moschea. Tanto più che tutto ciò non rispecchia certo un progetto urbano sensato, considerando le dimensioni della città e la già notevole concentrazione umana e commerciale che catalizza le attività in quest’area. Come dice qualche studente Erasmus che tende alla semplificazione, che senso ha vedere il resto della città quando tutto “succede” qui?

E non so allo stesso modo se Istanbul abbia bisogno del cosiddetto secondo Bosforo, un progetto ancora nebuloso che dovrebbe in qualche modo tagliare la terra e creare un altro braccio di mare, e del terzo ponte. Attualmente le sponde asiatica ed europea sono collegate da un servizio continuo di traghetti e da due ponti, che non possono però essere percorsi a piedi. Stando a quello che docenti di architettura all’università mi hanno detto, dietro ai due progetti ci sono le stesse maestranze e gli stessi finanziamenti. Per lungo tempo non è stato dichiarato ufficialmente in quali punti esatti delle sponde il ponte si sarebbe poggiato, per evitare che partisse una corsa folle di speculazione edilizia a ridosso della nuova arteria, il che indica quali interessi ci sono in gioco.

Ora lo so, o almeno in parte. Garipçe, nella zona di Sarıyer, villaggio bellissimo a nord di Istanbul affacciato per metà sul Bosforo e per metà sul Mar Nero, da cui con una scarpinata un po’ ardua si arrivava ad una spiaggia sovrastata dal verde deserta e paradisiaca,è distrutto.

E non mi è neppure chiaro il senso dei ponti in costruzione nel braccio di mare europeo del Corno d’Oro, così tanto vicini l’uno all’altro.

Si fatica a pensare che la solerzia con cui questi interventi vengono portati avanti sia figlia degli stessi organi istituzionali che hanno promesso dopo il terremoto del 2011 a Van, nel sud est del paese, una rapida ricostruzione. A febbraio ho visto gli scheletri delle case. Erano esattamente come devono essere stati all’indomani del terremoto, e nessuna delle famiglie che mi ha ospitato ha ricevuto alcun sostegno economico. Sarà che sono Curdi.

E c’è poi la seconda fetta di malcontento, quello che riguarda il quotidiano, con i provvedimenti piccoli ma regolari e facenti parte di un unico disegno improntato a spingere la Turchia verso un islamismo più rigido e nostalgico dell’impero ottomano  nel quale la popolazione per lo più assolutamente laica non si riconosce affatto. Il fez lo vendono ai turisti, non è un copricapo da usare tutti i giorni. Il provvedimento di pochi giorni fa che vieta la vendita di alcool fra le 22 e le 6 è solo la formalizzazione di un atteggiamento precedente. L’estate scorsa la zona della torre di Galata era un piacevole ritrovo di gente che suonava e beveva ma senza per questo essere molesta, tanto più che ad esempio fumare cose diverse dal tabacco, difficili da trovare e fortemente osteggiate, non è diffuso e la piena visibilità della piazza non avrebbe consentito nulla di particolarmente sconveniente.  Già a fine estate c’erano le transenne ed era diventato proibito sedere per terra. Qualche mese fa che eravamo 5 o 6 persone semplicemente sedute sulle panchine con una birra in mano siamo stati invitati ad andarcene da 3 poliziotti. Inutile dire che mentre discutevamo le birre erano finite e già stati buttati nell’apposito cassonetto i vuoti.

Non credo ci sia dubbio, i motivi per manifestare il dissenso ci sono. Ma la grande partecipazione di questi giorni resta una sorpresa. Normalmente, o almeno nel corso dei 10 mesi che ho trascorso qua, non si manifesta.  Ci si prova certo, ma le manifestazioni a tema strettamente politico non sono gradite. Ci sono banchetti che cercano l’attenzione dei passanti su Istiklal, ma si parla di 10 persone al massimo ogni volta. Se la manifestazione invece è mobile, a Taksim in genere, viene tranquillamente boicottata, in proporzioni di 10 manifestanti e 30 poliziotti. A meno, ovvio, che non si tratti di manifestazioni a tema calcistico. In quel caso la gente si riversa a fiumi con le magliette della squadra su Istiklal, creando a volte problemi si di ordine pubblico, ma senza subire alcun tipo di respingimento.

Finché non è nata la protesta di Gezi Park. A dire il vero il presidio c’era già da un po’, anche perché i lavori nella piazza tutta sono in corso da mesi, ma non aveva  un enorme seguito. Mi spiegava giorni fa un amico turco, alla nostra domanda dopo i primi scontri “perché non vi siete mossi prima?” che in Turchia tante carte e accordi vengono firmati e sottoscritti. Però sono così tanti che non sempre poi hanno esito concreto o immediato. Qui invece stava succedendo.

Mercoledì 29 maggio ho passato la serata in Gezi Park. Non mi sento di chiamarla manifestazione, perché era veramente solo un presidio del tutto pacifico. Tende comprate tutti insieme a 15 lire, musica, qualcuno che si preoccupa di raccogliere in continuazione l’immondizia, un proiettore con filmati dell’archivio storico su Istanbul, i carretti con il Pilav spostati da Istiklal, gente contenta dopo aver piantato nuovi alberelli fin dal giorno prima. Tutto ciò almeno fino alle 4 di mattina, quando sono andata via. Alle 5, precise, organizzate, sono arrivate le forze dell’ordine, a incendiare le tende, usare getti d’acqua e lacrimogeni. Il giorno dopo ci siamo svegliati tutti esterrefatti, ma mai quanto lo siamo stati la sera dopo, quando di nuovo, puntuali, alle 5, sono intervenuti nel parco. Ma stavolta, mi diceva Mehmet che ci ha raggiunto a casa a giorno fatto dopo essere riuscito a defilarsi sperando che gli amici che aveva perso nella confusione fossero riusciti a fare lo stesso, agendo da due lati, e rendendo così ancora più difficile la fuga, tanto più che essendoci i lavori gli ingressi del parco non sono tutti agibili. Fra i tanti, tantissimi feriti all’ospedale, c’erano quelli che scappando avevano cercato di scavalcare un muretto che è caduto a terra con tutte le persone appresso e un ragazzo che ha ricevuto un lacrimogeno direttamente sulla gamba, che era diventata gonfia in modo inquietante. La manifestazione di sabato ha visto risvegliarsi il paese, indignato per il comportamento della polizia che non ora, ma da tempo agisce così. Tantissimi amici turchi, per non parlare dei curdi, denunciano una sistematica vessazione e limitazione della libertà di espressione. E’ poi cosa che impari appena arrivi qua che la polizia non è da chiamare se hai bisogno. Quella volta che tanto gentilmente insistevano per accompagnarmi in macchina alla mia destinazione, preoccupati che andassi a correre all’alba da sola, al mio rifiuto ad andare con loro il giorno dopo a fare una gita sul Bosforo mi hanno scaricata dove eravamo, pericoloso o no.

La partecipazione di sabato 1 giugno è stata una cosa incredibile. Mai, mai vista tanta gente e tanto varia tutta insieme. Più che per le partite di calcio. Già la mattina c’era qualcosa di diverso nell’aria, un fermento nuovo e uno stato d’allerta generale. I bus da e per gli aeroporti limitavano il tragitto parecchio lontano da Taksim, sotto allo stadio. Nel corso del pomeriggio la pressione pacifica della moltitudine composta da persone di tutte le età e condizioni che sfilava o presidiava Taksim e il parco è riuscita a far ottenere la liberazione della piazza. La polizia che stazionava nella zona da giorni se n’è andata, lasciando lo spazio a chi lo ama. Sono rimasta davanti allo stadio con ragazzi che cantavano Bella Ciao in turco, a godermi lo spettacolo del fiume di gente felice che si spostava verso Taksim da un lato e verso Beşiktaş dall’altro. Ad ogni passaggio di mezzi blindati, lanci di bottiglie e cori di gioia ad ogni loro allontanamento, sovrastati di numero. Però ovvio, sembrava troppo facile. Almeno a me. Vivo a Beşiktaş e mi sono incamminata insieme ai manifestanti in quella direzione. Per poi realizzare che la polizia si era semplicemente spostata alla fine del viale. Un continuo andare avanti e indietro, finché la pressione della folla spinta da getti d’acqua non ha creato un tappo. Sono risalita fino al parcheggio di un grande albergo che sta a metà del viale e ho ripreso da sopra l’arrivo del gas lacrimogeno e lo sciame di gente che si sposta. Per fortuna l’albergo ci ha fatti entrare. Brutte scene: gente colpita, un ragazzo cui gli uscieri hanno fornito una sedia a rotelle che guardava fisso, senza pantaloni, con un asciugamano a coprire. Non so cosa gli fosse capitato. Il quartiere è rimasto sotto assedio come lo era stato Taksim i giorni precedenti. Qualche ora dopo ancora camminare verso casa non era facile. La polizia lanciava lacrimogeni nelle stradine, dove i manifestanti a capannelli costruivano barricate. Incredibile la rete umana di assistenza reciproca. Ho passato il tempo con un ragazzo curdo e uno turco, poi con una professionista con le figlie, poi ospitata in due diverse case da studenti e abitanti normali che ti accolgono con aceto da mettere sulla bocca. Tutti in strada riparano sé stessi e contemporaneamente controllano che non ci sia nessuno privo della salvifica spruzzata di una mistura a base di latte sugli occhi. Una coppia anziana doveva uscire da casa a tarda notte non so perché e un gruppo di ragazzi l’ha scortata fin dove era più sicuro. Colpisce come il personale dell’albergo lussuosissimo ci abbia consentito di usare i suoi passaggi interni per sbucare dall’altra parte al sicuro, o come i soldati dell’esercito vicino a Taksim abbiano dato le mascherine antigas ai manifestanti in fuga dalla polizia. Atteggiamento questo che comunque non è scontato. La mia facoltà, meravigliosa, grande, accanto a Gezi Park, non ha aperto le porte a chi scappava qualche giorno fa. Poco prima di tornare a casa mi arriva un messaggio da un turco-tedesco, che giro a dei turchi: alle 3 la polizia carica di nuovo. Nessun esito drammatico per fortuna.

Il giorno dopo il quartiere si è svegliato e normalizzato, di nuovo come sempre in fermento, ma pronto per l’appuntamento successivo. Taksim è libera, pacifico presidio in cui si sta realizzando una eccezionale cooperazione. Chi può va quando può. Chi porta da mangiare, chi dà il cambio per la notte, chi improvvisa spettacoli. Si costruisce di tutto con tutto: librerie con casse della frutta. Beşiktaş in serata però è stata di nuovo luogo di scontri. Qui, fra il viale principale del quartiere e lo stadio sotto a Taksim, c’è l’ufficio di Erdogan. I manifestanti non intendono cedere su questa zona che considerano da liberare. Verso le 8 di sera il viale delle cariche del giorno prima, intasato di gente, è stato di nuovo raggiunto dai blindati. I poliziotti hanno cominciato a tirare lacrimogeni fin dentro le stradine con i ristoranti e la gente fuori. I manifestanti si disperdono ma restano. Molte strade sono bloccate, come lo sono tutt’ora molte delle traverse di Istiklal. Sono momenti strani, con il gas che si sente perfino dalla finestra. Ricambiamo il favore e a gruppi i manifestanti salgono a casa per riprendersi e scendere di nuovo. Tutta la città si unisce in un ritmico e impressionante rumore di protesta, fatto con mestoli e pentole e un suggestivo regolare spegnimento di luci. E’ un unico grande respiro.

Chi non è in strada segue on line e in continuazione ci si scambiano chiamate su cosa succede e dove. E’ stato rubato non so dove un Caterpillar e con quello i manifestanti hanno spinto i blindati indietro. In Asia un gruppo di che sabato ha attraversato il Bosforo a piedi sul ponte resta ora bloccato per un presidio della polizia, ma oggi anche dall’altro lato della città ci si muove. A Kadıköy, uno dei due centri focali dell’abitato in Asia nonché il più antico della città, si è tenuta una manifestazione per chiedere le dimissioni del premier.

Lunedì è giorno lavorativo, ma la protesta non si ferma. E’ ora normale, paziente. Tutti quelli con cui parlo sono sereni e fermi. Si torna dal lavoro, si prende la mascherina, si aspetta la polizia al grido “gel”, vieni. Si aspetta e non si arretra. Quando arriva il getto d’acqua o il gas niente panico, si urla “yavaş”, piano.  Ieri sera fino ad una certa ora solo getti d’acqua però, la polizia ha stretto un accordo di non ostilità per la nottata. Tutti si spostano allora verso Taksim, gruppetti restano a presidiare Beşiktaş. Scontri di nuovo nell’ora tanto cara alla polizia, fra le 3 e le 5, a Gümüşsuyu, dove si erano fermati i blindati. Gli arresti continuano, anche una studentessa Erasmus, finita troppo avanti. Un mio amico ieri sera stava tornando a casa qua a Beşiktaş. Erano in due, lui e un turco. Sono stati fermati dalla polizia alle 3 di notte perché camminavano nella zona fra lo stadio e Kabatas, dove ci sono stati scontri l’altro ieri. Sono stati arrestati e fatti sedere. Lui ha mostrato i documenti e come studente straniero gli è stato consentito di andarsene. Però mentre cercava un taxi se la sono presa di nuovo con lui. Non sappiamo come sia andata ai turchi che sono rimasti.

La polizia sta diventando chiaramente più tesa. La gente però non sembra avere paura. Vedo persone veramente normali, qualcosa a coprire il volto che non è un vezzo da rivoltoso incosciente, è la protezione dal gas. Sembra essere sparito quel velo di accondiscendenza che copriva le cose. Le persone fuori sono tante. Negli annunci e negli slogan se ne parla: siamo spalla a spalla. Meno paura di parlare, come ormai era da tempo, meno paura di stare fuori. Diritto a restare, a non cedere. Non so se è “primavera” o no, ma la portata del dissenso è notevole. Bisognerà trovare una via comune. Il partito all’opposizione cerca di incarnare questo dissenso, ma prima di tutto bisogna far sì che questa base popolare composita resti unita. Chi si oppone all’islamismo retrogrado di Erdogan fregiandosi delle bandiere con Ataturk e inneggiando al suo riformismo laico non può trovare un appoggio duraturo nella grande comunità curda, la cui libertà il padre della patria ha represso con tanta decisione, né dell’esigua comunità armena, quasi sterminata. Sono le 8, vediamo come va stasera.

Valeria Cavinato