Israele – Pioggia, esplosioni ed elezioni

Pioggia, esplosioni ed elezioni.

Cosa ha caratterizzato le ultime giornate in Israele? Senza ombra di dubbio la campagna elettorale.

Il 22 gennaio il paese si è completamente fermato ad attendere il risultato della votazioni politiche.

Dopo una giornata ad alta tensione, quando si è verificata un esplosione a Tel Aviv (poi attribuita alla criminalità organizzata locale e non al terrorismo) e dopo il passaggio di una grande ed inusuale perturbazione che ha paralizzato per alcune ore il paese e ha fatto innalzare il livello del lago di Tiberiade come non ci si aspettava, i cittadini si sono immersi nuovamente nel clima politico.

Nonostante il partito di Netanyahu sia ancora il più grande all’interno del parlamento israeliano, per molti questa giornata di fine gennaio provocherà un cambiamento nella politica del paese.

Il suo partito, il Likud, esce ridimensionato dalla tornata elettorale e ciò porterà l’ex primo ministro a dover formare una coalizione comprendente altri partiti per formare una governo che abbia i numeri per gestire il paese.

Molti di coloro che hanno preferito non dare la propria preferenza a Netanyahu hanno contribuito a dare forza all’outsider Yair Lapid, ex star della tv locale che, con il suo partito centrista “Yesh Atid-c’è futuro”, porterà all’interno del parlamento 19 nuovi rappresentanti, formando a sorpresa la seconda forza. Sarà questo nuovo schieramento che, con molta probabilità, confluirà nel governo del Likud.

I cittadini più a destra sperano che questo permetterà a Netanyahu di avere abbastanza forza per portare avanti le sue politiche, mentre chi preferirebbe un paese con più attenzione all’aspetto economico e sociale di tutti i cittadini, si aspetta che sia proprio la formazione di Lapid ad “attenuare” e moderare l’azione dello Stato.

Il partito dei Laburisti dell’”Avoda” non è riuscito a portare abbastanza rappresentanti all’interno della camera per poter cercare di formare una coalizione di centro-sinistra. Questa ipotesi è poi definitivamente tramontata con il rifiuto di Lapid all’invito di Sheli Yachimovich, suo capopartito, a provare a costruire un blocco anti-Likud.

Gli altri partecipanti al gioco delle coalizioni e dei numeri saranno Naftali Benet (partito di destra “HaBait Hayeudi”), Tzipi Livni con il suo nuovo partito di centro “Hatnua”, i partiti rappresentanti degli ultraortodossi come “Shas” (partito dei religiosi di provenienza sefardita), il partito di più accentuata sinistra del Meretz che ha raddoppiato i suoi membri (arrivando a 6 rappresentanti) e i partiti con rappresentanti arabi.

Tra qualche giorno sapremo quale strada prenderà il governo del paese, quali partiti riusciranno a entrare all’interno del governo e quali invece sceglieranno di agire nell’opposizione. Forse sapremo anche se saremo costretti a tornare presto alle urne.

Daniele Di Nepi – twitter: @danieledinepi

Da Israele – cap. I

La vita a Tel Aviv è tornata completamente alla normalità.
Tel Aviv è sempre stata considerata un po’ uno “Stato nello Stato”, una bolla troppo a Sud per essere influenzata da ciò che succede a Nord, e troppo lontana da essere colpita da ciò che succede a Gaza.

Il 15 novembre però questa bolla è scoppiata al suono delle sirene anti-missile, risuonate anche qui in tutta la zona centrale di Israele. Da quel momento è cominciata una settimana sicuramente diversa. La paura che la sirena potesse suonare da un momento all’altro entrava a far parte della quotidianità e gli echi di ciò che succedeva nel sud (Gaza e le città israeliane) e delle morti, palestinesi e israeliane, influenzava tutti: favorevoli e contrari a come ci si approcciava alla “crisi”.
Il dibattito è continuato al termine della settimana con la dichiarazione del cessate il fuoco. Tutti qui in Israele erano sicuri che la situazione del Sud di Israele, sotto costante attacco missilistico terrorista, doveva terminare, ma si sono poi formate diverse opinioni: alcuni erano d’accordo con il cessate il fuoco, vedendo come priorità quella di far terminare le violenze; altri credevano che si dovesse trovare una soluzione per disarmare completamente Hamas e tutti i gruppi terroristici presenti nella striscia di Gaza.
In ogni caso però, il cessate il fuoco ha permesso alla zona di riavvicinarsi ad una situazione più vicina alla normalità, anche se per molti si tratta solo di una situazione temporanea destinata a riaggravarsi con il passare del tempo.
La società israeliana è quindi poi entrata pienamente in due discussioni politiche che hanno monopolizzato i mezzi di comunicazione: La campagna elettorale delle prossime elezioni israeliane e la dichiarazione della Palestina come stato osservatore presso l’ONU.
La campagna elettorale è nel vivo così come i processi di formazione dei diversi partiti e coalizioni che si sfideranno nelle prossime votazioni e ciò che è successo nell’assemblea delle Nazioni Unite è stato sicuramente uno dei fattori che ha influenzato l’opinione pubblica.
Si può essere più o meno d’accordo su come Israele si sia approcciata alla questione, ma è ben più diffusa la convinzione che questa azione politica non cambierà, almeno per il momento, la situazione effettiva sul territorio. Solo il tempo potrà dire se ciò avrà accelerato o rallentato il processo di pace.

Daniele Di Nepi

Twitter: @danieledinepi

Riflessioni di fine novembre

Nei giorni scorsi abbiamo sentito la necessità di incontrarci per poterci scambiare informazioni e confrontarci sulla situazione in Israele, alla ricerca di una verità e di una posizione comune che potesse definire la linea del movimento.
La conclusione a cui siamo giunti è che l’attacco subito dalle cittadine del sud di Israele negli ultimi anni è un dato innegabile, ed è impossibile pensare ad un’ analisi imparziale prescindendo dalla paura e la distruzione che centinaia di razzi lanciati da Gaza hanno inferto alle popolazioni del sud. Ciononostante, ci troviamo nel dubbio di capire quale sia per Israele il modo migliore per difendersi poiché un intervento via terra comunque rischierebbe di non risolvere la situazione, mietendo vittime.

Un impressione comune è che gli organi di stampa italiani abbiano posto l’ accento sul numero di morti non analizzando la complessità del conflitto e le cause che hanno portato ad un mirato attacco israeliano ai vertici del terrorismo di Hamas. Questa linea dei media ha dato adito a numerose strumentalizzazioni da parte di chi non riconosce ad Israele il diritto di difendersi.
Di fronte a questi tristi avvenimenti e a questa escalation di violenza ci sentiamo in dovere di difendere le ragioni di Israele taciute a livello nazionale e internazionale, ci siamo informati e ci informiamo quindi mediante vari mezzi e cerchiamo di diffondere informazioni non distorte da un cieco antisionismo dilagante.
Il nostro sostegno ad Israele non coincide con un sostegno privo di critiche al governo israeliano, l’ operato di questo non è spesso concorde con l’opinione del movimento e dei singoli che lo compongono, ma non mettiamo in dubbio il diritto di Israele ad esistere. Prendiamo infatti le distanze dagli estremismi di entrambi gli schieramenti e ci auspichiamo che nessuno parli più di distruzione dell’ una o dell’ altra parte.
Ci auguriamo inoltre che la tregua attualmente in atto fra Israele e Gaza possa portare a un negoziato di pace e quindi a una pace duratura.

Havi’u et Hayom

Libertà è partecipazione – 18° congresso UGEI

Firenze, novembre 2012. Un paio di settimane fa si è concluso il diciottesimo Congresso dell’ UGEI. E’ stato un finesettimana intenso ed importante, che ha visto l’affluenza di più di centocinquanta ragazzi ebrei provenienti da tutta Italia. Città, abitudini, idee diverse per ognuno dei partecipanti, tutti legati, però, da un fattore identitario fondamentale nelle sue infinite sfaccettature: l’ebraismo. Centocinquanta ragazzi si sono quindi riuniti per prendere parte ad un momento fondamentale per l’associazione, il Congresso annuale: è questo il fulcro dell’ UGEI, il momento in cui si analizza il lavoro svolto nell’anno che sta finendo e in cui si delineano i percorsi da seguire per i mesi successivi. Si ribadiscono i principi fondamentali da portare avanti, si individua ciò che non ha funzionato e deve essere corretto, si propongono e si stabiliscono progetti da realizzare e linee guida di cui tener conto.

Il Congresso, inoltre, elegge democraticamente al suo interno il Consiglio Esecutivo, i cui membri sono tenuti a concretizzare nell’anno successivo le mozioni approvate, dando vita ad un sistema democratico e coinvolgente. L’attuazione di questi schemi presenta però alcuni risvolti negativi: l’ UGEI si potrebbe dire che rispecchia, in dimensioni ridotte, la società in cui viviamo e tutti i meccanismi che la compongono e la fanno funzionare. La burocrazia che la caratterizza potrebbe forse essere un po’ snellita, ma non è questo il punto: la forza dell’ UGEI è la sua freschezza, la sua genuinità; è uno spazio dei giovani per i giovani, luogo di confronto, aggregazione, crescita. A volte, però, corre il rischio di perdere la sua limpidezza, rispecchiando la società anche nei difetti che la rendono marcia e malfunzionante: a volte si ha la sensazione che non tutti partecipino con gli stessi sentimenti, che non tutti abbiano la stessa concezione di UGEI come luogo di incontro e confronto, come organismo rappresentativo di tante realtà ebraiche differenti, come democrazia in cui il lavoro del singolo è finalizzato al bene comune. E’ fondamentale tenere ben presente nelle nostre menti il fine dell’ UGEI, la ragione per cui sono così importanti la sua esistenza e la sua crescita, e il nostro ruolo affinchè questo si realizzi.

Nei tre giorni del congresso, oltre alla pianificazione delle mozioni per l’anno successivo, sia in assemblea plenaria che divisi in commissioni tematiche, ci sono stati altri momenti degni di nota: il Congresso è stato aperto con il benvenuto del sindaco di Firenze Renzi, attualmente tra i candidati alle primarie del PD. Il sabato pomeriggio c’è stato un incontro con un rappresentante di Equality Italia, la prima rete trasversale in Italia di persone che operano per i diritti civili. L’ UGEI, insieme ad Equality Italia, ha fondato il progetto Musaikon, che “intende essere uno spazio aperto nella rete web e in luoghi fisici adatti al reale scambio di storie, esperienze, confronti di arricchimento personale e di presa di contatto con molteplici aspetti della società in cui viviamo”.
Tanti stimoli, tanti pensieri, tanta energia positiva è ciò che mi è rimasto dopo questo congresso. L’UGEI ci rappresenta, è nostro diritto e dovere farla crescere, sostenendola e criticandola quando opportuno.

Raffaella Toscano

Marrakesh Express

Riportiamo l’articolo pubblicato su Hatikwà, organo ufficiale di stampa dell’UGEI

(http://www.ugei.it/marakkesh-express)

Chi, come me fino ad un paio di settimane fa, ritiene l’EUJS un’associazione il cui unico scopo è l’organizzazione di weekend all’insegna del divertimento e della ricerca di un partner, si sbaglia di grosso! Dal 30 ottobre al 4 novembre, infatti, si è tenuto a Marrakesh un seminario interreligioso di altissimo livello, al quale ho partecipato insieme ad una decina di giovani ebrei provenienti da tutto il mondo ed un gruppo di ragazzi musulmani, per lo più marocchini.

Il programma del seminario era vario: abbiamo discusso temi scottanti, come le recenti violenze scatenate dal filmato su Maometto, ma abbiamo anche visitato i luoghi di culto di Marrakesh. Nelle sinagoghe e nel cimitero ebraico ci ha fatto da guida Yassar, un ragazzo musulmano del gruppo che da anni si occupa di studi ebraici. Insieme abbiamo anche trascorso lo Shabbat durante il quale alla nostra tavola, tra i piatti tipici degli ebrei marocchini, non poteva mancare una dafina in versione originale!

Gli organizzatori dell’EUJS hanno scelto il Marocco come sede per l’evento, proprio per la sua storia di massima tolleranza nei confronti dei cittadini ebrei. La scelta non poteva essere più azzeccata, infatti sentire le parole degli ebrei di Marrakesh, cosi fortemente attaccati alla loro terra è stato emozionante: “Alcuni ebrei sono partiti per raggiungere i loro figli in Europa o in Israele, ma poi sono tornati perché non riuscivano a costruirsi una nuova routine in quei paesi. Ora siamo noi a prenderci cura di questi anziani”, racconta il presidente della comunità Jacki Kadoch.

Al seminario ho avuto modo di conoscere persone davvero interessanti, come Ghassan, presidente dell’associazione di studenti musulmani “Mimouna”, che si propone di promuovere la conoscenza del patrimonio ebraico marocchino. Da quattro anni ormai, i giovani di questa associazione organizzano il “Jewish Maroccan Day”, attirando un vasto pubblico tra la popolazione marocchina.

L’associazione “Mimouna” presenta l’ebraismo marocchino come modello per una coesistenza di ebrei e musulmani in un paese arabo. In questi giorni difficili per il Medio Oriente, pensare a questo modello non può che essere di conforto e di esempio.

Noemi Di Segni

“Mi chiamo Shlomo Venezia…”

“Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo ma, prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo «Venezia». Gli ebrei provenienti dalla Spagna non usavano cognomi: si chiamavano, ad esempio, Isacco figlio di Salomone. Arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano. Per questa ragione molte famiglie ebraiche portano nomi di città. Nel nostro caso è quello che ci ha permesso di conservare la cittadinanza italiana.” Quando Shlomo si presentava a chi ancora non lo conosceva, iniziava sempre il discorso con questa frase. Probabilmente l’avrà pronunciata centinaia e centinaia di volte, perché Shlomo ha dedicato la sua vita al racconto.

Fu arrestato con la madre, il fratello e tre sorelle ad Atene nell’ aprile del 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Durante la sua prigionia svolgeva un lavoro terribile, anello immancabile della precisa macchina della morte nazista, era membro del Sonderkommando, un’unità speciale. Il suo compito era quello di accompagnare coloro che non erano più considerati abili al lavoro, alla morte nelle camere a gas. Gli faceva togliere vestiti e scarpe, gli tagliava i capelli per poi farli accomodare dentro. Poco dopo avrebbe trasportato i cadaveri verso i crematori, dove sarebbero diventati cenere.

Complici dello sterminio erano, secondo quest’ottica, non solo i nazisti, ma anche gli ebrei stessi. “Se avessi saputo che il nostro lavoro supplementare consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che accettare, ma quando lo compresi era troppo tardi. Noi non avevamo scelta: quelli che si rifiutavano venivano immediatamente uccisi con un colpo di pistola alla testa. E poi non ragionavamo più col nostro cervello, pensando a quello che succedeva… eravamo diventati degli automi.”

Ma è stato proprio questo lavoro barbaro, che ha torturato Shlomo ogni giorno della sua vita fino all’ultimo, a salvarlo: i membri del Sonderkommando avevano un trattamento migliore degli altri prigionieri, a volte mangiavano qualcosa di più, ma venivano sterminati periodicamente, per cancellare ogni prova di quel meccanismo mortale. Se il ricordo di quei giorni era incancellabile nella sua mente, è stato proprio il coraggio e la forza di ricordare a far vivere Shlomo.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo nel novembre 2006, quando ho partecipato ad uno dei “Viaggi della Memoria” organizzati dal sindaco Veltroni, insieme a 230 studenti delle scuole romane. Ho conosciuto la sua dolcezza, la sua umanità, il suo sorriso, la sua enorme forza e l’instancabile voglia di raccontare. I ragazzi rimanevano stregati dalle sue storie. Avrebbero potuto ascoltarlo per ore, e lo hanno fatto tante volte fino a tarda notte nei corridoi e per le scale dell’hotel di Cracovia che ci ospitava, senza interruzioni, con le lacrime agli occhi e il desiderio di capire. Capire perché tutto questo è accaduto sarebbe impossibile, ma ricordare e tramandare la memoria che ci ha lasciato è un dovere di noi tutti. Le sue parole sono un testimone unico che è nostro dovere raccogliere per passarlo alle generazioni successive perché “è successo, quindi può accadere di nuovo”.

Non dimenticherò mai quando, forse a causa della mia ingenuità di ragazza appena diciottenne, o forse mossa dalla voglia di sapere e capire che quel viaggio aveva suscitato in me, chiesi ai sopravvissuti dove avevano trovato, una volta usciti dai campi,  la forza e la voglia di andare avanti, cosa li aveva spinti a lottare per la vita ed a non abbandonarsi, invece, alla morte suicida, come molti avevano fatto. Oggi non sarei in grado di porre una domanda simile, ma fu proprio Shlomo a volermi rispondere: “Dopo 47 anni che racconto”, disse, “non ho mai pensato al suicidio. Ho esternato le emozioni parlando e mi ha aiutato. Oggi ho meno malloppo”.

Se Shlomo ha deciso di raccontare la sua esperienza, a differenza di molti altri che si sono tenuti, e si tengono ancora, tutto il dolore dentro, se si è sentito alleggerito col tempo, e se ha provato meno senso di colpa, se è riuscito un po’ a guarire da quella che chiamava “malattia del sopravvissuto” è grazie a  tutti coloro che lo hanno ascoltato, gli hanno fatto domande e lo hanno stimolato a raccontare.

Shlomo se ne è andato, ed ognuno si deve sentire come se avesse perso qualcosa di importante, un gioiello prezioso, una testimonianza unica al mondo. Ma non sarà dimenticato. Le sue parole sono impresse non solo nella carta e nella pellicola, ma nei nostri cuori, nella memoria di migliaia di giovani che lo hanno seguito, ascoltato e che si sono presi l’impegno di farlo vivere attraverso le parole.

“Non si esce mai veramente da Auschwitz”, ci diceva Shlomo. Io spero che oggi Shlomo sia finalmente riuscito ad uscire dal campo di sterminio, a lasciarsi per sempre l’orrore alle spalle. E che possa riposare in pace.

Arrivederci mio grande maestro, educatore, guida ed esempio.

Susanna Ascarelli

La frontiera

Haviu et Hayom è lieto di invitarvi al primo appuntamento del Cineforum “La frontiera”.

Frontiera: Linea di demarcazione, di distinzione netta; limite estremo valicabile, sia pure solo dopo molti sforzi; traguardo raggiungibile
(dal Dizionario Italiano Sabatini Coletti)

Come trasformare una linea di demarcazione netta in un traguardo raggiungibile?

Haviu et Hayom invita i giovani a riflettere e discutere sul significato della frontiera, attraverso un percorso cinematografico che vuole essere anche un percorso di pace.

Mercoledì 29 Febbraio: proiezione del film “Il giardino dei limoni” di Eran Riklis.

Si prega di confermare la presenza.

Memoria pret à porter

Non riesco ad astenermi dal giudicare l’articolo uscito su “Il Giornale” il 27 gennaio 2012, firmato dal direttore Alessandro Sallusti.

L’articolo merita attenzione in quanto è stato pubblicato in occasione del sessantasettesimo anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, ma fa mostra di considerazioni e riflessioni e, più complessivamente, di una forma mentis, che non sembrano aver elaborato quale sia il significato del 27 Gennaio 1945. Con l’aggravante di voler far passare l’articolo come un omaggio alla giornata della memoria.

 

L’editoriale del direttore di un quotidiano, si sa, è uno dei pezzi che fa sicuramente la prima pagina, ma anche il giornale intero, per questo è ricoperto di una certa importanza: non passerà di certo inosservato. Dunque chi decide di firmare l’editoriale ha delle responsabilità, come del resto ogni giornalista le ha.

 

Sallusti, in occasione della Giornata della Memoria, decide di dare una risposta sulle pagine del suo Giornale al settimanale tedesco “Der Spiegel” che ha usato toni affatto gentili per parlare del popolo italiano, che sarebbe un popolo di “mordi e fuggi”. Insomma un “popolo di Schettino” e per questo l’Europa e l’euro sarebbero in crisi.

Invece il popolo tedesco, che è una razza, certi errori non li compie, nella crisi economica che attanaglia l’Europa , non ci cade.

Sicuramente la rivista tedesca ha perso di vista due o tre valori: ad esempio quello dell’inesistenza della “razza”. In più sembra non avere una cognizione storica ben fondata di Europa, di cui è bene ricordare che l’Italia fu uno dei primi paesi fondatori (Manifesto di Ventotene 1940), ponendo la propria eredità culturale antifascista e democratica come caposaldo per tutti gli altri paesi dell’area che stava vivendo il conflitto.

 

Compresi gli antefatti, è interessante spiegare l’epilogo italiano. Sallusti, infatti, volendo far giustizia al suo Paese, oltraggiato, offeso, insultato, intraprende la strada di una dialettica spicciola, veloce,immediata e per questo inefficace: un vero confronto avviene quando i protagonisti del dibattito si scambiano contenuti non a forza di slogan, ma mettendo in scena le proprie posizioni, portatrici di soggettive verità.

Qui Sallusti anziché rispondere al collega tedesco a colpi di storia, si concede a un gioco di comparazioni che hanno poco a che fare tra loro e manifestano deliberatamente la loro inopportunità: “È vero, noi italiani alla Schettino abbiamo sulla coscienza una trentina di passeggeri della nave, quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo) di passeggeri ne hanno ammazzati sei milioni.

E di qui è un crescendo, si passa a parlare di quanti Ebrei gli italiani hanno salvato, come non fossero stati loro stessi a sostenere il regime fascista. Ma attenzione! In più, quando si parla di italiani che salvarono dalle persecuzioni gli ebrei, ovviamente Sallusti se ne guarda bene dal citare i nuclei della Resistenza, limitandosi al ricordo del singolo Giorgio Perlasca.

 

Quel che si verifica in quest’editoriale, segue una tendenza molto pericolosa che facilmente si insinua nella nostra società, per questo credo abbia sollevato molteplici polemiche.

Le polemiche infatti non sono state sollevate solo per il fatto di mascherare l’atteggiamento del popolo italiano con quello di un popolo innocente e immacolato, ma anche perché con troppa leggerezza si è andati a mettere sulla stessa bilancia due realtà diverse e lontane tra loro. E non perchè la Shoà sia qualcosa di intoccabile e dogmatico, bensì perché entra a far parte della Storia e in quanto tale non si può prestare a un dibattito che non ne rispetti la sua natura storica.

E’ l’atteggiamento del giornalista Sallusti ad essere senza criterio: a chi addebita a un carattere italiano la crisi economica che stringe l’Europa, sarebbe stato opportuno rispolverare altri fatti storici, che potessero essere rivelatori di cosa il “carattere italiano” ha fatto per l’Europa al momento della sua nascita, del ruolo di ideatrice e fondatrice che la nostra nazione ha avuto.

Perchè mettere in mezzo i sei milioni di vittime in un banale gioco di “chi sbaglia di più”? Dietro, purtroppo, io rintraccio un atteggiamento politico, di chi strumentalizza la storia volendo ricordare ciò che è più utile(per la propria parte politica), e non ciò che è giusto. E rivisitare la Storia è come oltraggiarla. Credo sia un atto di ingiustizia, più di ogni altra cosa. Ingiustizia perché si induce a un errato ricordare, ingiustizia nei confronti di ciò che è stato, poiché si induce a una ricostruzione truccata e manipolata di ciò che fu.

No, la Shoà non è un errore dei tanti che popolano la storia, è un’eredità che ognuno di noi ha il compito di tutelare, alzando la voce quando accadono episodi come questo. Perché un articolo come quello di Sallusti potrebbe abituare i lettori a considerare Auschwitz come un dato, un evento da tirare in ballo in diatribe tra colleghi. Si tratta di una svalutazione della portata storica dell’evento che a lungo andare potrebbe portare a pericolosi effetti.

A distanza di sessantasette anni, il fare memoria è diventato questo: essere sempre all’erta , individuare quando la memoria viene messa in atto nella maniera sbagliata, individuare quei meccanismi, anche quelli che si mascherano bene, che minacciano il buon funzionamento del ricordo. Ricordare oggi, vuol dire sorvegliare affinché nelle nostre società non avvengano evidenti episodi di oltraggio, ma non si verifichino anche episodi più subdoli, che diversamente, in maniera indiretta, potrebbero inquinare, confondere i confini di ciò che è stato e di ciò che deve essere oggi, nel presente, la Shoà.

Gaia Litrico

Noi? Voi?

Termina questa giornata, 27 Gennaio 2012. Giornata della memoria, giornata di cui si discute, in cui si ricorda, attraverso cui si tenta di dar voce alle lotte del presente. La memoria che, per sua natura, ci propone una sfida: ricordare in modo intelligente, sensibile e allontanare il pericoloso rituale di una commemorazione che, anno dopo anno, rischia di spogliarsi dei suoi contenuti.

A questa sfida, anche quest’anno, hanno ben risposto le innumerevoli iniziative promosse in tutta Italia. Momenti di incontro ragionati e partecipati. Eppure a “far notizia” è stato qualcos’altro; e come ho appreso, ormai da tempo, di rado la notizia si accompagna al contenuto.

A far scattare la polemica è stato Alessandro Sallusti su Il Giornale (leggi l’articolo), con un articolo discutibile (di cui discuteremo), e un titolo altrettanto discutibile ma soprattutto eccessivo nelle misure, prepotente. Che voleva dirci con questo titolo?

Proveremo a ipotizzare qualche risposta, ma è sempre meglio partire dai fatti.

Sallusti pone l’attenzione, secondo lui mancata e a ragione,  sull’aggressione all’italia portata avanti da Der Spiegel. Fino a qui tutto bene. Doveroso è denunciare chi ancora parla di razza tedesca, doveroso scrivere e aprire il dibattito.

Eppure sorgono due domande: perché non lo ha fatto prima? Der Spiegel aveva già pubblicato da qualche giorno. E ancora: ha davvero denunciato, aperto il dibattito?

Molte voci si sono levate contro l’articolo de Il Giornale. I più hanno denunciato la strumentalizzazione che, senza dubbio, fa inorridire. Difendersi da un’accusa gettando sull’altro i suoi peccati, il suo peccato: la shoà. E farlo durante la giornata della memoria!

E non finisce qui: a far inorridire è anche un falso storico che si manifesta nella sua sbrigatività. Sallusti semplifica la storia (mai cosa fu più pericolosa!) in due righe: da una parte i tedeschi cui imputare Auschwitz, dall’altra gli italiani che hanno salvato “centinaia di migliaia” di ebrei.

Ma ancora c’è qualcosa che non mi torna, che lascia un senso di amarezza di fondo. Infatti oltre i contenuti e le motivazioni c’è qualcos’altro che non mi convince.

Non mi convince il “tono” con cui l’articolo viene portato avanti, non mi convince chi punta il dito sull’altro, chi cerca di far confusione invece di analizzare, chiarire questioni. E paragonare due tragedie lontane nel tempo e che nulla hanno in comune, è fare confusione.

Non mi piace pensare che gli italiani abbiano “sulla coscienza una trentina di passeggeri della nave” e “quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo) di passeggeri ne hanno ammazzati sei milioni.” Non mi piace perché non credo sia giusto contare le vittime, meritano molto più rispetto. E più di ogni altra cosa, credo ciò non debba esser fatto per stabilire chi è “il più bravo”.

Cosa c’è dietro questa necessità di contare i morti, le colpe? Perché questo bisogno di affermarsi come migliori di altri (in questo caso, meno peggio)? A cosa porta questo atteggiamento?

Non porta a nulla di buono, e forse è proprio questo che fa nascere quel senso di amarezza. Mi spaventa pensare che, ancora oggi, sia tanto diffusa la tendenza alla difesa della propria parte aprioristicamente. Vedo soffocare ogni possibilità di dibattito laddove si creano blocchi contrapposti, noi e voi.

Non sopporto le strumentalizzazioni, né chi reinventa la storia, ma più di ogni altra cosa giudico pericoloso questo atteggiamento. Dovremmo aver imparato la lezione, dovremmo riuscire ad allontanare chi crea demoni nella controparte, chi si serve del nemico esterno per rafforzarsi internamente, chi crea odio e dà voce a stereotipi. Per queste ragioni questo meccanismo è rischioso, per questo è doveroso ripromettersi di svelarlo e sabotarlo. Un modo, con altri, per rispondere alla sfida che la memoria ci lancia!

Dana Portaleone