Libertà è partecipazione – 18° congresso UGEI

Firenze, novembre 2012. Un paio di settimane fa si è concluso il diciottesimo Congresso dell’ UGEI. E’ stato un finesettimana intenso ed importante, che ha visto l’affluenza di più di centocinquanta ragazzi ebrei provenienti da tutta Italia. Città, abitudini, idee diverse per ognuno dei partecipanti, tutti legati, però, da un fattore identitario fondamentale nelle sue infinite sfaccettature: l’ebraismo. Centocinquanta ragazzi si sono quindi riuniti per prendere parte ad un momento fondamentale per l’associazione, il Congresso annuale: è questo il fulcro dell’ UGEI, il momento in cui si analizza il lavoro svolto nell’anno che sta finendo e in cui si delineano i percorsi da seguire per i mesi successivi. Si ribadiscono i principi fondamentali da portare avanti, si individua ciò che non ha funzionato e deve essere corretto, si propongono e si stabiliscono progetti da realizzare e linee guida di cui tener conto.

Il Congresso, inoltre, elegge democraticamente al suo interno il Consiglio Esecutivo, i cui membri sono tenuti a concretizzare nell’anno successivo le mozioni approvate, dando vita ad un sistema democratico e coinvolgente. L’attuazione di questi schemi presenta però alcuni risvolti negativi: l’ UGEI si potrebbe dire che rispecchia, in dimensioni ridotte, la società in cui viviamo e tutti i meccanismi che la compongono e la fanno funzionare. La burocrazia che la caratterizza potrebbe forse essere un po’ snellita, ma non è questo il punto: la forza dell’ UGEI è la sua freschezza, la sua genuinità; è uno spazio dei giovani per i giovani, luogo di confronto, aggregazione, crescita. A volte, però, corre il rischio di perdere la sua limpidezza, rispecchiando la società anche nei difetti che la rendono marcia e malfunzionante: a volte si ha la sensazione che non tutti partecipino con gli stessi sentimenti, che non tutti abbiano la stessa concezione di UGEI come luogo di incontro e confronto, come organismo rappresentativo di tante realtà ebraiche differenti, come democrazia in cui il lavoro del singolo è finalizzato al bene comune. E’ fondamentale tenere ben presente nelle nostre menti il fine dell’ UGEI, la ragione per cui sono così importanti la sua esistenza e la sua crescita, e il nostro ruolo affinchè questo si realizzi.

Nei tre giorni del congresso, oltre alla pianificazione delle mozioni per l’anno successivo, sia in assemblea plenaria che divisi in commissioni tematiche, ci sono stati altri momenti degni di nota: il Congresso è stato aperto con il benvenuto del sindaco di Firenze Renzi, attualmente tra i candidati alle primarie del PD. Il sabato pomeriggio c’è stato un incontro con un rappresentante di Equality Italia, la prima rete trasversale in Italia di persone che operano per i diritti civili. L’ UGEI, insieme ad Equality Italia, ha fondato il progetto Musaikon, che “intende essere uno spazio aperto nella rete web e in luoghi fisici adatti al reale scambio di storie, esperienze, confronti di arricchimento personale e di presa di contatto con molteplici aspetti della società in cui viviamo”.
Tanti stimoli, tanti pensieri, tanta energia positiva è ciò che mi è rimasto dopo questo congresso. L’UGEI ci rappresenta, è nostro diritto e dovere farla crescere, sostenendola e criticandola quando opportuno.

Raffaella Toscano

“Mi chiamo Shlomo Venezia…”

“Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo ma, prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo «Venezia». Gli ebrei provenienti dalla Spagna non usavano cognomi: si chiamavano, ad esempio, Isacco figlio di Salomone. Arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano. Per questa ragione molte famiglie ebraiche portano nomi di città. Nel nostro caso è quello che ci ha permesso di conservare la cittadinanza italiana.” Quando Shlomo si presentava a chi ancora non lo conosceva, iniziava sempre il discorso con questa frase. Probabilmente l’avrà pronunciata centinaia e centinaia di volte, perché Shlomo ha dedicato la sua vita al racconto.

Fu arrestato con la madre, il fratello e tre sorelle ad Atene nell’ aprile del 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Durante la sua prigionia svolgeva un lavoro terribile, anello immancabile della precisa macchina della morte nazista, era membro del Sonderkommando, un’unità speciale. Il suo compito era quello di accompagnare coloro che non erano più considerati abili al lavoro, alla morte nelle camere a gas. Gli faceva togliere vestiti e scarpe, gli tagliava i capelli per poi farli accomodare dentro. Poco dopo avrebbe trasportato i cadaveri verso i crematori, dove sarebbero diventati cenere.

Complici dello sterminio erano, secondo quest’ottica, non solo i nazisti, ma anche gli ebrei stessi. “Se avessi saputo che il nostro lavoro supplementare consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che accettare, ma quando lo compresi era troppo tardi. Noi non avevamo scelta: quelli che si rifiutavano venivano immediatamente uccisi con un colpo di pistola alla testa. E poi non ragionavamo più col nostro cervello, pensando a quello che succedeva… eravamo diventati degli automi.”

Ma è stato proprio questo lavoro barbaro, che ha torturato Shlomo ogni giorno della sua vita fino all’ultimo, a salvarlo: i membri del Sonderkommando avevano un trattamento migliore degli altri prigionieri, a volte mangiavano qualcosa di più, ma venivano sterminati periodicamente, per cancellare ogni prova di quel meccanismo mortale. Se il ricordo di quei giorni era incancellabile nella sua mente, è stato proprio il coraggio e la forza di ricordare a far vivere Shlomo.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo nel novembre 2006, quando ho partecipato ad uno dei “Viaggi della Memoria” organizzati dal sindaco Veltroni, insieme a 230 studenti delle scuole romane. Ho conosciuto la sua dolcezza, la sua umanità, il suo sorriso, la sua enorme forza e l’instancabile voglia di raccontare. I ragazzi rimanevano stregati dalle sue storie. Avrebbero potuto ascoltarlo per ore, e lo hanno fatto tante volte fino a tarda notte nei corridoi e per le scale dell’hotel di Cracovia che ci ospitava, senza interruzioni, con le lacrime agli occhi e il desiderio di capire. Capire perché tutto questo è accaduto sarebbe impossibile, ma ricordare e tramandare la memoria che ci ha lasciato è un dovere di noi tutti. Le sue parole sono un testimone unico che è nostro dovere raccogliere per passarlo alle generazioni successive perché “è successo, quindi può accadere di nuovo”.

Non dimenticherò mai quando, forse a causa della mia ingenuità di ragazza appena diciottenne, o forse mossa dalla voglia di sapere e capire che quel viaggio aveva suscitato in me, chiesi ai sopravvissuti dove avevano trovato, una volta usciti dai campi,  la forza e la voglia di andare avanti, cosa li aveva spinti a lottare per la vita ed a non abbandonarsi, invece, alla morte suicida, come molti avevano fatto. Oggi non sarei in grado di porre una domanda simile, ma fu proprio Shlomo a volermi rispondere: “Dopo 47 anni che racconto”, disse, “non ho mai pensato al suicidio. Ho esternato le emozioni parlando e mi ha aiutato. Oggi ho meno malloppo”.

Se Shlomo ha deciso di raccontare la sua esperienza, a differenza di molti altri che si sono tenuti, e si tengono ancora, tutto il dolore dentro, se si è sentito alleggerito col tempo, e se ha provato meno senso di colpa, se è riuscito un po’ a guarire da quella che chiamava “malattia del sopravvissuto” è grazie a  tutti coloro che lo hanno ascoltato, gli hanno fatto domande e lo hanno stimolato a raccontare.

Shlomo se ne è andato, ed ognuno si deve sentire come se avesse perso qualcosa di importante, un gioiello prezioso, una testimonianza unica al mondo. Ma non sarà dimenticato. Le sue parole sono impresse non solo nella carta e nella pellicola, ma nei nostri cuori, nella memoria di migliaia di giovani che lo hanno seguito, ascoltato e che si sono presi l’impegno di farlo vivere attraverso le parole.

“Non si esce mai veramente da Auschwitz”, ci diceva Shlomo. Io spero che oggi Shlomo sia finalmente riuscito ad uscire dal campo di sterminio, a lasciarsi per sempre l’orrore alle spalle. E che possa riposare in pace.

Arrivederci mio grande maestro, educatore, guida ed esempio.

Susanna Ascarelli

Haviu et Hayom e Ugei: Il confronto attraverso il cinema

“E’ vivo, è qui nella villa, l’ho visto! E’ malato, è molto vecchio ma si riesce a portarlo via, non ha guardie del corpo, c’è solo un’infermiera. Portiamolo via, portiamolo in Israele, in tribunale, non è difficile, ce la facciamo benissimo anche noi due da soli. Noi possiamo fare giustizia!”

Queste le parole di Eyal, un agente del Mossad israeliano che, dopo aver a lungo dato la caccia a un vecchio generale nazista, una volta trovato si accorge di aver di fronte una situazione più grande di lui. Crimini troppo grandi per poter essere puniti dagli uomini. Cos’è la giustizia? Chi ha il diritto di stabilire i suoi confini?

Ma facciamo un passo indietro. Eyal (Lior Ashkenazi) è il protagonista di “Walk on Water”, film di Eytan Fox del 2004. Una sessantina di giovani della comunità ebraica romana hanno partecipato, Mercoledì 11 Maggio, a un aperitivo con cineforum, nato dalla collaborazione tra il movimento giovanile Haviu et Hayom e l’Ugei, che proponeva la suddetta pellicola.

L’Unione dei Giovani Ebrei Italiani (http://www.ugei.it/) ha così presentato  un’ iniziativa al pubblico romano, la prima del ciclo“ Roming”. Per Haviu et  hayom (http://haviuethayom.wordpress.com/) è stata invece la prima occasione per uscire davanti un pubblico giovane e proporre, in linea con i suoi valori, un aspetto culturale della società israeliana, come il cinema. Haviu et hayom, nato a Roma pochi mesi fa, è un gruppo di giovani ebrei, laici e sionisti, vicini ad Israele, “ma non senza riserve qualora le scelte governative non risultino in linea con un processo che porti all’affermazione del diritto all’esistenza di uno Stato palestinese democratico e autonomo, e ad una pacifica coesistenza tra i due popoli.”

Il movimento si impegna nel proporre all’esterno momenti di confronto, occasioni per mettere in dubbio, ma anche per comporre insieme, idee e punti di vista. Il film proposto affronta molteplici tematiche: dall’omosessualità alla complessa questione della giustizia.

E’ stato proprio quest’ultimo tema ad aprire il dibattito. L’agente del mossad che deve “far giustizia” uccidendo il nazista, fa nascere una domanda spontanea, ma dalla risposta meno immediata. Si tratta in questo caso di giustizia o di vendetta? Chi disegna i confini universalmente riconosciuti di questi valori?

Queste le domande che hanno stimolato un dibattito, positivo soprattutto grazie alla pluralità di opinioni emerse.

Qualcuno ha sostenuto che giustizia e vendetta sono due concetti morali, stabiliti dalla legge con criterio razionale, così da sottrarli a una dimensione arbitraria e soggettiva.

Qualche attento osservatore ha affermato invece che, nel momento in cui si uccide, portando così avanti una vendetta, si annienta qualsiasi genere di umanità.  Eyal, l’agente del Mossad, alla fine del film afferma infatti di non essere più in grado di uccidere. Ogni cosa che si avvicina a lui –dice- finisce per morire.

Il dibattito ha poi percorso strade più vicine ai nostri giorni e facendo riferimento ad avvenimenti attuali ci si è domandati se sia giusto gioire della morte di un nemico.

Le reazioni dei giovani presenti sono state concordi nel condannare manifestazioni di gioia nel caso di morte di nemici, sostenendo che il vero obiettivo da combattere sia l’idea e non l’uomo che la incarna. Ci si è poi domandati quando un nemico diviene tale. Prima di voler eliminare il nemico infatti lo si potrebbe voler in vita, tutelare la sua diversità.

Queste sono state solo alcune delle riflessioni che, Mercoledì 11 Maggio, hanno dato luogo a un’iniziativa culturale in un’ atmosfera di novità ed esordio. L’esordio si può immaginare come il primo passo che si compie e per questo lo si ricopre di importanza, esordio è nascita, un modo per diventare artefici di qualcosa.

Probabilmente questo deve essere il ruolo dei giovani: rendersi iniziatori, talvolta anticipatori, creare nuovi spazi e trasformarli in terreni di confronto. Insomma, divenire protagonisti di ciò che  intorno.

Dana Portaleone

Gaia Litrico

Oltre il muro

Riportiamo l’articolo pubblicato su Moked (http://moked.it/blog/2011/05/24/liberta-dopinione-valore-ebraico-irrinunciabile/)

Pochi giorni fa, sui muri della scuola ebraica, è apparsa una scritta: un anonimo autore insultava un membro della nostra comunità. Un’opinione dura e forse poco condivisa, espressa su una lettera pubblicata da Shalom, la causa che probabilmente ha spinto a compiere tale gesto. Due giorni di attesa, e l’insulto continuava ad imbrattare le mura di un edificio che per definizione dovrebbe essere il luogo della cultura, del confronto, del rispetto reciproco. Assistere a tutto questo e rimanere da parte non ci è stato possibile: in questo episodio abbiamo visto una minaccia alla libertà di espressione e di pensiero, proprio all’interno della realtà che è a noi più vicina: la comunità ebraica. La difesa di un valore, dunque, e non di un’opinione è stata la spinta a mobilitarci. L’idea è stata quella di coprire simbolicamente quella che per noi era un’espressione di intolleranza, nell’attesa che venisse rimossa definitivamente; così, muniti di fogli bianchi e scotch, abbiamo creduto, forse ingenuamente, di impegnarci per salvaguardare un interesse generale. La reazione a tutto questo, però, è stata totalmente inaspettata. Il giorno dopo, un’altra scritta è apparsa accanto alla precedente, e stavolta l’oggetto dell’insulto eravamo noi. Noi, Havi’u et Hayom, un gruppo di giovani ebrei nato dall’esigenza comune di proporre uno spazio di incontro e di crescita, autonomi rispetto a qualsiasi altro gruppo o movimento già esistente. Troviamo che la modalità con cui siamo stati criticati non sia soltanto sbagliata, ma sia soprattutto scoraggiante: ci ha stupiti il clima di intolleranza che regna nella nostra comunità, la totale assenza di un dialogo, l’impossibilità di esprimere un qualsiasi pensiero. È triste e frustrante pensare che proprio tra noi ebrei regni un clima così aspro e chiuso al confronto; la nostra storia ci dovrebbe indurre a privilegiare la libera espressione e il dibattito anche sulle tematiche più spinose, perché solo dal confronto può nascere il dialogo indispensabile a mantenere viva e vitale la nostra comunità e a consentire a tutti di coltivare la propria identità ebraica.

I ragazzi di Havi’u et Hayom

Questi sono fatti nostri

L’altra notte il Pasquino di Piazza ha agito nuovamente, imbrattando ancora di turpiloqui le mura della nostra scuola. Non si firma e accusa noi di vigliaccheria, perché agiamo durante la notte. Coprire uno scempio è stato per noi un atto di umana decenza, occultare una vergogna per evitare che il giorno dopo bambini fossero esposti non solo alla volgarità, ma anche al significato che questa sottintende. I metodi dello scribacchino notturno sono infatti intimidatori, ricordano un brutto periodo della nostra storia e non lasciano spazio a quella pluralità di opinioni che ha sempre caratterizzato l’ebraismo.

Chi scrive sui muri ritiene di possedere l’unica verità, che coinciderebbe poi anche con la voce del popolo. Ma chi siamo noi e cosa pensiamo, forse ci è stato chiesto? No. Quella famosa notte ci è stato chiesto: chi vi manda?

Nessuno ci manda.

Siamo un gruppo di giovani indipendenti, che non è al soldo di nessuno. Non siamo il braccio armato di nessuno, non siamo il portavoce di nessuno. Ed è proprio questo quel che vogliamo insegnare ai ragazzi che ogni giorno vivono quella scuola: pensate con la vostra testa, e soprattutto non abbiate timore!

Semplicemente, crediamo nella libertà di parola senza necessariamente condividere le opinioni che ciascuno esprime. Nessuno di noi ha mai scritto o detto che i coloni di Itamar “se la siano cercata”, quello che noi diciamo è: con gli insulti e le violenze non si va da nessuna parte. Siamo ragazzi cresciuti in quella scuola, e le dobbiamo molto. Ci ha trasmesso il nostro attaccamento all’ebraismo, come anche il rispetto dell’altro. Se chi perde tempo ad insudiciare quelle mura avesse impiegato la stessa energia nell’ascoltare quel che lì dentro viene insegnato, saprebbe che uno dei valori fondamentali dell’ebraismo è il senso di responsabilità nei confronti del prossimo. Di fronte ad un’offesa violenta e volgare, il nostro senso di responsabilità si è mosso, per difendere il principio del rispetto che deve rimanere inviolabile.

Per questo motivo, si tratta di affari nostri.

Scritte ignominiose

Perché di fronte ad un’offesa alla libertà di espressione non si può rimanere inerti. Per questo motivo abbiamo deciso, ieri notte, di andare a coprire l’ignominiosa scritta comparsa sui muri della scuola ebraica, perché i ragazzi che oggi entreranno nelle aule non vengano contaminati dal volgare turpiloquio, perché nel luogo educativo per eccellenza si insegni il rispetto dell’altro. “Ama il prossimo tuo: è te stesso”, così Emmanuel Levinas legge il celebre versetto biblico.

Sporcare le mura di una scuola non è un qualsiasi gesto vandalico, significa far credere che “l’anima” della comunità – il futuro, i suoi giovani – si esprima con un’unica voce ed un’unica opinione, ma è anche un atto di violenta diseducazione che va a discapito dei ragazzi stessi.

Il compito ufficiale di emendare spetta ovviamente agli organi comunitari, ma noi che siamo una voce giovane e fresca abbiamo deciso di farci sentire con un’azione notturna, così chi oggi riparerà – forse malvolentieri? – il danno, si renderà conto di come ci siano ragazzi pronti a non lasciarsi imbambolare dalla retorica di un pensiero facilmente uniforme, né a spaventarsi di fronte ad un agire minaccioso.

Un passo indietro:

Pubblicata sull’ultimo numero di Shalom, una lettera di Giorgio Gomel, che si può leggere qui http://www.shalom.it/_flip/2011_05/, critica l’iniziativa della comunità ebraica di Roma “Barbecue con i nostri fratelli di Itamar” . Ricordiamo che nel Marzo scorso ad Itamar, un insediamento illegale secondo il diritto internazionale, è avvenuta un’orribile strage, una famiglia di coloni è stata brutalmente assassinata nel sonno.

La reazione alla lettera di Gomel? Eccola qui:

Ed ecco il nostro intervento: