Riflessioni di fine novembre

Nei giorni scorsi abbiamo sentito la necessità di incontrarci per poterci scambiare informazioni e confrontarci sulla situazione in Israele, alla ricerca di una verità e di una posizione comune che potesse definire la linea del movimento.
La conclusione a cui siamo giunti è che l’attacco subito dalle cittadine del sud di Israele negli ultimi anni è un dato innegabile, ed è impossibile pensare ad un’ analisi imparziale prescindendo dalla paura e la distruzione che centinaia di razzi lanciati da Gaza hanno inferto alle popolazioni del sud. Ciononostante, ci troviamo nel dubbio di capire quale sia per Israele il modo migliore per difendersi poiché un intervento via terra comunque rischierebbe di non risolvere la situazione, mietendo vittime.

Un impressione comune è che gli organi di stampa italiani abbiano posto l’ accento sul numero di morti non analizzando la complessità del conflitto e le cause che hanno portato ad un mirato attacco israeliano ai vertici del terrorismo di Hamas. Questa linea dei media ha dato adito a numerose strumentalizzazioni da parte di chi non riconosce ad Israele il diritto di difendersi.
Di fronte a questi tristi avvenimenti e a questa escalation di violenza ci sentiamo in dovere di difendere le ragioni di Israele taciute a livello nazionale e internazionale, ci siamo informati e ci informiamo quindi mediante vari mezzi e cerchiamo di diffondere informazioni non distorte da un cieco antisionismo dilagante.
Il nostro sostegno ad Israele non coincide con un sostegno privo di critiche al governo israeliano, l’ operato di questo non è spesso concorde con l’opinione del movimento e dei singoli che lo compongono, ma non mettiamo in dubbio il diritto di Israele ad esistere. Prendiamo infatti le distanze dagli estremismi di entrambi gli schieramenti e ci auspichiamo che nessuno parli più di distruzione dell’ una o dell’ altra parte.
Ci auguriamo inoltre che la tregua attualmente in atto fra Israele e Gaza possa portare a un negoziato di pace e quindi a una pace duratura.

Havi’u et Hayom

Marrakesh Express

Riportiamo l’articolo pubblicato su Hatikwà, organo ufficiale di stampa dell’UGEI

(http://www.ugei.it/marakkesh-express)

Chi, come me fino ad un paio di settimane fa, ritiene l’EUJS un’associazione il cui unico scopo è l’organizzazione di weekend all’insegna del divertimento e della ricerca di un partner, si sbaglia di grosso! Dal 30 ottobre al 4 novembre, infatti, si è tenuto a Marrakesh un seminario interreligioso di altissimo livello, al quale ho partecipato insieme ad una decina di giovani ebrei provenienti da tutto il mondo ed un gruppo di ragazzi musulmani, per lo più marocchini.

Il programma del seminario era vario: abbiamo discusso temi scottanti, come le recenti violenze scatenate dal filmato su Maometto, ma abbiamo anche visitato i luoghi di culto di Marrakesh. Nelle sinagoghe e nel cimitero ebraico ci ha fatto da guida Yassar, un ragazzo musulmano del gruppo che da anni si occupa di studi ebraici. Insieme abbiamo anche trascorso lo Shabbat durante il quale alla nostra tavola, tra i piatti tipici degli ebrei marocchini, non poteva mancare una dafina in versione originale!

Gli organizzatori dell’EUJS hanno scelto il Marocco come sede per l’evento, proprio per la sua storia di massima tolleranza nei confronti dei cittadini ebrei. La scelta non poteva essere più azzeccata, infatti sentire le parole degli ebrei di Marrakesh, cosi fortemente attaccati alla loro terra è stato emozionante: “Alcuni ebrei sono partiti per raggiungere i loro figli in Europa o in Israele, ma poi sono tornati perché non riuscivano a costruirsi una nuova routine in quei paesi. Ora siamo noi a prenderci cura di questi anziani”, racconta il presidente della comunità Jacki Kadoch.

Al seminario ho avuto modo di conoscere persone davvero interessanti, come Ghassan, presidente dell’associazione di studenti musulmani “Mimouna”, che si propone di promuovere la conoscenza del patrimonio ebraico marocchino. Da quattro anni ormai, i giovani di questa associazione organizzano il “Jewish Maroccan Day”, attirando un vasto pubblico tra la popolazione marocchina.

L’associazione “Mimouna” presenta l’ebraismo marocchino come modello per una coesistenza di ebrei e musulmani in un paese arabo. In questi giorni difficili per il Medio Oriente, pensare a questo modello non può che essere di conforto e di esempio.

Noemi Di Segni

“Mi chiamo Shlomo Venezia…”

“Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo ma, prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo «Venezia». Gli ebrei provenienti dalla Spagna non usavano cognomi: si chiamavano, ad esempio, Isacco figlio di Salomone. Arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano. Per questa ragione molte famiglie ebraiche portano nomi di città. Nel nostro caso è quello che ci ha permesso di conservare la cittadinanza italiana.” Quando Shlomo si presentava a chi ancora non lo conosceva, iniziava sempre il discorso con questa frase. Probabilmente l’avrà pronunciata centinaia e centinaia di volte, perché Shlomo ha dedicato la sua vita al racconto.

Fu arrestato con la madre, il fratello e tre sorelle ad Atene nell’ aprile del 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Durante la sua prigionia svolgeva un lavoro terribile, anello immancabile della precisa macchina della morte nazista, era membro del Sonderkommando, un’unità speciale. Il suo compito era quello di accompagnare coloro che non erano più considerati abili al lavoro, alla morte nelle camere a gas. Gli faceva togliere vestiti e scarpe, gli tagliava i capelli per poi farli accomodare dentro. Poco dopo avrebbe trasportato i cadaveri verso i crematori, dove sarebbero diventati cenere.

Complici dello sterminio erano, secondo quest’ottica, non solo i nazisti, ma anche gli ebrei stessi. “Se avessi saputo che il nostro lavoro supplementare consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che accettare, ma quando lo compresi era troppo tardi. Noi non avevamo scelta: quelli che si rifiutavano venivano immediatamente uccisi con un colpo di pistola alla testa. E poi non ragionavamo più col nostro cervello, pensando a quello che succedeva… eravamo diventati degli automi.”

Ma è stato proprio questo lavoro barbaro, che ha torturato Shlomo ogni giorno della sua vita fino all’ultimo, a salvarlo: i membri del Sonderkommando avevano un trattamento migliore degli altri prigionieri, a volte mangiavano qualcosa di più, ma venivano sterminati periodicamente, per cancellare ogni prova di quel meccanismo mortale. Se il ricordo di quei giorni era incancellabile nella sua mente, è stato proprio il coraggio e la forza di ricordare a far vivere Shlomo.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo nel novembre 2006, quando ho partecipato ad uno dei “Viaggi della Memoria” organizzati dal sindaco Veltroni, insieme a 230 studenti delle scuole romane. Ho conosciuto la sua dolcezza, la sua umanità, il suo sorriso, la sua enorme forza e l’instancabile voglia di raccontare. I ragazzi rimanevano stregati dalle sue storie. Avrebbero potuto ascoltarlo per ore, e lo hanno fatto tante volte fino a tarda notte nei corridoi e per le scale dell’hotel di Cracovia che ci ospitava, senza interruzioni, con le lacrime agli occhi e il desiderio di capire. Capire perché tutto questo è accaduto sarebbe impossibile, ma ricordare e tramandare la memoria che ci ha lasciato è un dovere di noi tutti. Le sue parole sono un testimone unico che è nostro dovere raccogliere per passarlo alle generazioni successive perché “è successo, quindi può accadere di nuovo”.

Non dimenticherò mai quando, forse a causa della mia ingenuità di ragazza appena diciottenne, o forse mossa dalla voglia di sapere e capire che quel viaggio aveva suscitato in me, chiesi ai sopravvissuti dove avevano trovato, una volta usciti dai campi,  la forza e la voglia di andare avanti, cosa li aveva spinti a lottare per la vita ed a non abbandonarsi, invece, alla morte suicida, come molti avevano fatto. Oggi non sarei in grado di porre una domanda simile, ma fu proprio Shlomo a volermi rispondere: “Dopo 47 anni che racconto”, disse, “non ho mai pensato al suicidio. Ho esternato le emozioni parlando e mi ha aiutato. Oggi ho meno malloppo”.

Se Shlomo ha deciso di raccontare la sua esperienza, a differenza di molti altri che si sono tenuti, e si tengono ancora, tutto il dolore dentro, se si è sentito alleggerito col tempo, e se ha provato meno senso di colpa, se è riuscito un po’ a guarire da quella che chiamava “malattia del sopravvissuto” è grazie a  tutti coloro che lo hanno ascoltato, gli hanno fatto domande e lo hanno stimolato a raccontare.

Shlomo se ne è andato, ed ognuno si deve sentire come se avesse perso qualcosa di importante, un gioiello prezioso, una testimonianza unica al mondo. Ma non sarà dimenticato. Le sue parole sono impresse non solo nella carta e nella pellicola, ma nei nostri cuori, nella memoria di migliaia di giovani che lo hanno seguito, ascoltato e che si sono presi l’impegno di farlo vivere attraverso le parole.

“Non si esce mai veramente da Auschwitz”, ci diceva Shlomo. Io spero che oggi Shlomo sia finalmente riuscito ad uscire dal campo di sterminio, a lasciarsi per sempre l’orrore alle spalle. E che possa riposare in pace.

Arrivederci mio grande maestro, educatore, guida ed esempio.

Susanna Ascarelli

Memoria pret à porter

Non riesco ad astenermi dal giudicare l’articolo uscito su “Il Giornale” il 27 gennaio 2012, firmato dal direttore Alessandro Sallusti.

L’articolo merita attenzione in quanto è stato pubblicato in occasione del sessantasettesimo anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, ma fa mostra di considerazioni e riflessioni e, più complessivamente, di una forma mentis, che non sembrano aver elaborato quale sia il significato del 27 Gennaio 1945. Con l’aggravante di voler far passare l’articolo come un omaggio alla giornata della memoria.

 

L’editoriale del direttore di un quotidiano, si sa, è uno dei pezzi che fa sicuramente la prima pagina, ma anche il giornale intero, per questo è ricoperto di una certa importanza: non passerà di certo inosservato. Dunque chi decide di firmare l’editoriale ha delle responsabilità, come del resto ogni giornalista le ha.

 

Sallusti, in occasione della Giornata della Memoria, decide di dare una risposta sulle pagine del suo Giornale al settimanale tedesco “Der Spiegel” che ha usato toni affatto gentili per parlare del popolo italiano, che sarebbe un popolo di “mordi e fuggi”. Insomma un “popolo di Schettino” e per questo l’Europa e l’euro sarebbero in crisi.

Invece il popolo tedesco, che è una razza, certi errori non li compie, nella crisi economica che attanaglia l’Europa , non ci cade.

Sicuramente la rivista tedesca ha perso di vista due o tre valori: ad esempio quello dell’inesistenza della “razza”. In più sembra non avere una cognizione storica ben fondata di Europa, di cui è bene ricordare che l’Italia fu uno dei primi paesi fondatori (Manifesto di Ventotene 1940), ponendo la propria eredità culturale antifascista e democratica come caposaldo per tutti gli altri paesi dell’area che stava vivendo il conflitto.

 

Compresi gli antefatti, è interessante spiegare l’epilogo italiano. Sallusti, infatti, volendo far giustizia al suo Paese, oltraggiato, offeso, insultato, intraprende la strada di una dialettica spicciola, veloce,immediata e per questo inefficace: un vero confronto avviene quando i protagonisti del dibattito si scambiano contenuti non a forza di slogan, ma mettendo in scena le proprie posizioni, portatrici di soggettive verità.

Qui Sallusti anziché rispondere al collega tedesco a colpi di storia, si concede a un gioco di comparazioni che hanno poco a che fare tra loro e manifestano deliberatamente la loro inopportunità: “È vero, noi italiani alla Schettino abbiamo sulla coscienza una trentina di passeggeri della nave, quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo) di passeggeri ne hanno ammazzati sei milioni.

E di qui è un crescendo, si passa a parlare di quanti Ebrei gli italiani hanno salvato, come non fossero stati loro stessi a sostenere il regime fascista. Ma attenzione! In più, quando si parla di italiani che salvarono dalle persecuzioni gli ebrei, ovviamente Sallusti se ne guarda bene dal citare i nuclei della Resistenza, limitandosi al ricordo del singolo Giorgio Perlasca.

 

Quel che si verifica in quest’editoriale, segue una tendenza molto pericolosa che facilmente si insinua nella nostra società, per questo credo abbia sollevato molteplici polemiche.

Le polemiche infatti non sono state sollevate solo per il fatto di mascherare l’atteggiamento del popolo italiano con quello di un popolo innocente e immacolato, ma anche perché con troppa leggerezza si è andati a mettere sulla stessa bilancia due realtà diverse e lontane tra loro. E non perchè la Shoà sia qualcosa di intoccabile e dogmatico, bensì perché entra a far parte della Storia e in quanto tale non si può prestare a un dibattito che non ne rispetti la sua natura storica.

E’ l’atteggiamento del giornalista Sallusti ad essere senza criterio: a chi addebita a un carattere italiano la crisi economica che stringe l’Europa, sarebbe stato opportuno rispolverare altri fatti storici, che potessero essere rivelatori di cosa il “carattere italiano” ha fatto per l’Europa al momento della sua nascita, del ruolo di ideatrice e fondatrice che la nostra nazione ha avuto.

Perchè mettere in mezzo i sei milioni di vittime in un banale gioco di “chi sbaglia di più”? Dietro, purtroppo, io rintraccio un atteggiamento politico, di chi strumentalizza la storia volendo ricordare ciò che è più utile(per la propria parte politica), e non ciò che è giusto. E rivisitare la Storia è come oltraggiarla. Credo sia un atto di ingiustizia, più di ogni altra cosa. Ingiustizia perché si induce a un errato ricordare, ingiustizia nei confronti di ciò che è stato, poiché si induce a una ricostruzione truccata e manipolata di ciò che fu.

No, la Shoà non è un errore dei tanti che popolano la storia, è un’eredità che ognuno di noi ha il compito di tutelare, alzando la voce quando accadono episodi come questo. Perché un articolo come quello di Sallusti potrebbe abituare i lettori a considerare Auschwitz come un dato, un evento da tirare in ballo in diatribe tra colleghi. Si tratta di una svalutazione della portata storica dell’evento che a lungo andare potrebbe portare a pericolosi effetti.

A distanza di sessantasette anni, il fare memoria è diventato questo: essere sempre all’erta , individuare quando la memoria viene messa in atto nella maniera sbagliata, individuare quei meccanismi, anche quelli che si mascherano bene, che minacciano il buon funzionamento del ricordo. Ricordare oggi, vuol dire sorvegliare affinché nelle nostre società non avvengano evidenti episodi di oltraggio, ma non si verifichino anche episodi più subdoli, che diversamente, in maniera indiretta, potrebbero inquinare, confondere i confini di ciò che è stato e di ciò che deve essere oggi, nel presente, la Shoà.

Gaia Litrico

Noi? Voi?

Termina questa giornata, 27 Gennaio 2012. Giornata della memoria, giornata di cui si discute, in cui si ricorda, attraverso cui si tenta di dar voce alle lotte del presente. La memoria che, per sua natura, ci propone una sfida: ricordare in modo intelligente, sensibile e allontanare il pericoloso rituale di una commemorazione che, anno dopo anno, rischia di spogliarsi dei suoi contenuti.

A questa sfida, anche quest’anno, hanno ben risposto le innumerevoli iniziative promosse in tutta Italia. Momenti di incontro ragionati e partecipati. Eppure a “far notizia” è stato qualcos’altro; e come ho appreso, ormai da tempo, di rado la notizia si accompagna al contenuto.

A far scattare la polemica è stato Alessandro Sallusti su Il Giornale (leggi l’articolo), con un articolo discutibile (di cui discuteremo), e un titolo altrettanto discutibile ma soprattutto eccessivo nelle misure, prepotente. Che voleva dirci con questo titolo?

Proveremo a ipotizzare qualche risposta, ma è sempre meglio partire dai fatti.

Sallusti pone l’attenzione, secondo lui mancata e a ragione,  sull’aggressione all’italia portata avanti da Der Spiegel. Fino a qui tutto bene. Doveroso è denunciare chi ancora parla di razza tedesca, doveroso scrivere e aprire il dibattito.

Eppure sorgono due domande: perché non lo ha fatto prima? Der Spiegel aveva già pubblicato da qualche giorno. E ancora: ha davvero denunciato, aperto il dibattito?

Molte voci si sono levate contro l’articolo de Il Giornale. I più hanno denunciato la strumentalizzazione che, senza dubbio, fa inorridire. Difendersi da un’accusa gettando sull’altro i suoi peccati, il suo peccato: la shoà. E farlo durante la giornata della memoria!

E non finisce qui: a far inorridire è anche un falso storico che si manifesta nella sua sbrigatività. Sallusti semplifica la storia (mai cosa fu più pericolosa!) in due righe: da una parte i tedeschi cui imputare Auschwitz, dall’altra gli italiani che hanno salvato “centinaia di migliaia” di ebrei.

Ma ancora c’è qualcosa che non mi torna, che lascia un senso di amarezza di fondo. Infatti oltre i contenuti e le motivazioni c’è qualcos’altro che non mi convince.

Non mi convince il “tono” con cui l’articolo viene portato avanti, non mi convince chi punta il dito sull’altro, chi cerca di far confusione invece di analizzare, chiarire questioni. E paragonare due tragedie lontane nel tempo e che nulla hanno in comune, è fare confusione.

Non mi piace pensare che gli italiani abbiano “sulla coscienza una trentina di passeggeri della nave” e “quelli della razza di Jan Fleischauer (autore dell’articolo) di passeggeri ne hanno ammazzati sei milioni.” Non mi piace perché non credo sia giusto contare le vittime, meritano molto più rispetto. E più di ogni altra cosa, credo ciò non debba esser fatto per stabilire chi è “il più bravo”.

Cosa c’è dietro questa necessità di contare i morti, le colpe? Perché questo bisogno di affermarsi come migliori di altri (in questo caso, meno peggio)? A cosa porta questo atteggiamento?

Non porta a nulla di buono, e forse è proprio questo che fa nascere quel senso di amarezza. Mi spaventa pensare che, ancora oggi, sia tanto diffusa la tendenza alla difesa della propria parte aprioristicamente. Vedo soffocare ogni possibilità di dibattito laddove si creano blocchi contrapposti, noi e voi.

Non sopporto le strumentalizzazioni, né chi reinventa la storia, ma più di ogni altra cosa giudico pericoloso questo atteggiamento. Dovremmo aver imparato la lezione, dovremmo riuscire ad allontanare chi crea demoni nella controparte, chi si serve del nemico esterno per rafforzarsi internamente, chi crea odio e dà voce a stereotipi. Per queste ragioni questo meccanismo è rischioso, per questo è doveroso ripromettersi di svelarlo e sabotarlo. Un modo, con altri, per rispondere alla sfida che la memoria ci lancia!

Dana Portaleone

Precarietà tra tende e succot

Un nutrito gruppo di giovani ha affollato ieri sera la sukkah del Centro Pitigliani per presenziare all’incontro organizzato dall’associazione Haviu Et Hayom, incentrato sul concetto della precarietà. Il primo intervento è stato quello di rav Gianfranco Di Segni, che ha tenuto una lezione talmudica sulla sukkah con i riferimenti riguardanti la sua costruzione. Collegandosi all’architettura e anche alla geografia astronomica, rav Di Segni si è concentrato principalmente su due punti: la costruzione della capanna non deve superare i dieci metri e deve ricevere ombra dal tetto. Appassionando i partecipanti, ha introdotto i pareri dei rabbanim più illustri spiegando come la posizione vincente sia quella di Rava. Infatti egli è stato l’ultimo e quindi il più autorevole, poiché nel suo bagaglio di conoscenza sono presenti tutte le opinioni dei suoi predecessori.

A seguire l’intervento di Aviram Levy, economista, che riporta il tema della precarietà ai nostri giorni, riferendosi alla scottante questione degli indignados in Israele. L’argomento è stato illustrato con chiarezza anche ai digiuni di economia. Perché i cittadini israeliani hanno levato un grido di protesta che ha accomunato classi ed età differenti? Principalmente per tre motivi, spiega Levy. 1) Lo sviluppo dell’alta tecnologia ha distinto negli ultimi anni Israele, fornendo però pochi posti di lavoro. Il risultato? Un divario economico ingente che ha favorito una piccola frangia della popolazione. 2) Le tasse gravose e dalle quali non si può sfuggire. L’alta tecnologia porta anche ai controlli incrociati. 3) L’aumento del costo della vita: la spesa per gli alloggi, la diminuzione di interesse nel settore di edilizia per quanto riguarda la costruzione di case popolari o per studenti, la debolezza del trasporto pubblico e i tagli all’istruzione che hanno portato il fiorire di scuole private e costose. Come in qualsiasi paese avanzato vi è una attrazione fatale tra politica ed editoria con un conseguente controllo dell’informazione. Ma i fautori della protesta sono comunque al centro dell’attenzione mediatica e dimostrano una civiltà e caparbietà che sembra aver finalmente portato dei risultati. Tra domande, curiosità e la disponibilità dei due oratori, l’incontro si è concluso con una cena riparati dalla sukkah che nella sua precarietà ci continua a far alzare gli occhi verso il cielo.

Rachel Silvera

Israel got viral

Se v’è qualcosa di certo, al riguardo di En tus tierras bailaré, è che questo trapianto globale di folklore andino il cui ritornello (“Israel, Israel, ¡qué bonito es Israel!”) il villeggiante frastornato udrà risonare gagliardo ai padiglioni di quelle italiche miniature di esposizioni universali che gli oriundi s’ostinano a chiamare dimessamente fiere paesane è―va detto senza indugi―arte. Il lettore che d’agosto affolli altri lidi abbisognerà d’una ricerca in internet. Chiunque, del resto, se ne potrà giovare; giacché anche a voler dire tutto, del video che, a detta d’alcuni, in quaranta milioni hanno visto, non ci si avvicinerebbe neppure a raccontarne la grandezza. Non varrebbero né la minuta descrizione della danza panica dei neo-Breslav sullo sfondo di Wendy, al contempo novella Amarilli e puttina in rosa shocking, che scandisce con sconsolato ed imperfettibile ardore il ritornello sionista; né lo sciorinamento dell’elenco della fauna che il video arruola come puramente dispensabile comparsa (dai lama ad una coppia di annoiati cammelli; dai pappagalli ad un gruppo di primati, uno dei quali lo spettatore attento vedrà rotolarsi con gaia spericolatezza giù per un dosso al minuto 2:57); né, infine, il tentativo di rendere l’intensità dell’Ur-schrei iniziale (“¡No puede ser! ¡No!”), in cui uno degli interpreti prorompe dopo essersi avveduto, grazie ad una serie di interviste mostrate in televisione, della diffusa percezione negativa nei riguardi d’Israele.

Come si diceva, di arte trattasi. E l’arte si dà, nel video, in qualche maniera attraverso (chiedersi se grazie o nonostante sarebbe ozioso) l’interpretazione di tre eroi della música chicha. In primis la Tigresa del Oriente (l’Oriente, s’intende, del Perù), al secolo Judith Bustos, cui la carne di procace sessantenne straripa con generosa oscenità dal costume―appunto―tigrato comprensivo d’artigli posticci, e che chi scrive ammira per la bonomia con cui ha saputo perdonare a Lady Gaga, in ripetute apparizioni pubbliche, l’averne plagiato costume e movenze. In secundis Delfín hasta el fin (aka Delfín Quishpe), ecuadoriano del quale un’intera generazione idolatra il caratteristico passo, la cui esecuzione è debitamente annunziata, nel video, dalla medesima voce galvanizzante che in molti sospettano essere responsabile di ogni annuncio vocale nel subcontinente centro- e sudamericano (cfr. minuto 1:35: ¡“Y ahora el pasito del Deflín!”), e che certamente lo è dell’invito, formulato poco dopo (cfr. minuto 3:30), a “todos: niños, ancianos, maestros, pescadores y fútbolistas, estrella, famoso, panadero o agricultor”, a lasciar fluire l’amore “sin prejuicios”. Infine Wendy Sulca, quattordicenne peruviana sprovvista di nome d’arte, vestale del folklore andino, incarnazione quintessenziale dell’innocente malizia puberale, assurta a fama internazionale, sin dalla (nel suo caso forse meno) tenera età di otto anni, per hits quali La tetita e Papito―dedicata, quest’ultima, al defunto genitore.

Il movente che ha indotto una serie di creatives ebrei a contattare questi tre artisti con un testo di nostalgico e sguaiato amore per un Paese che non hanno mai visto, una musica prodotta dal compositore argentino Gaby Kerpel (del collettivo di musica latina elettronica Zizek) ed un progetto visuale in stile vaquero-teocriteo, per poi montarne artigianalmente gli sforzi in una confezione che appare emersa dalla fucina di un addetto agli audiovisivi ebefrenico del Ministero del Turismo israeliano, rimarrà con tutta probabilità per sempre insondato. La documentata e sussiegosa nota dedicata alla Trimūrti della musica folklorica latinoamericana dall’argentino Página/12 (l’Izvestia del progressismo porteño) scorge nell’impresa, con magistrale intreccio di paternalismo e ideologia, oscure trame di propaganda sionista che avrebbero alterato l’ingenuità del trio. Un più empatico elzeviro della New York Review of Books tira in ballo la sontaghiana nozione di camp, ed esprime commossa ammirazione per il vitalistico ottimismo dei tre. Nei commenti online a quest’articolo qualcuno ricorda l’identificazione, da parte dei missionari gesuiti che giunsero in Perù nel ‘600, di alcune tribù amerinde con le tribù perdute d’Israele, e la diffusione nel Paese, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, dell’evangelismo della Misión israelita del nuevo pacto universal. A chi scrive tutto ciò appare tutto sommato di rilevanza assai relativa. Dinanzi all’opera d’arte non s’ha che da premere, per l’ennesima volta, “Play”.

Emanuel

Haviu et Hayom e Ugei: Il confronto attraverso il cinema

“E’ vivo, è qui nella villa, l’ho visto! E’ malato, è molto vecchio ma si riesce a portarlo via, non ha guardie del corpo, c’è solo un’infermiera. Portiamolo via, portiamolo in Israele, in tribunale, non è difficile, ce la facciamo benissimo anche noi due da soli. Noi possiamo fare giustizia!”

Queste le parole di Eyal, un agente del Mossad israeliano che, dopo aver a lungo dato la caccia a un vecchio generale nazista, una volta trovato si accorge di aver di fronte una situazione più grande di lui. Crimini troppo grandi per poter essere puniti dagli uomini. Cos’è la giustizia? Chi ha il diritto di stabilire i suoi confini?

Ma facciamo un passo indietro. Eyal (Lior Ashkenazi) è il protagonista di “Walk on Water”, film di Eytan Fox del 2004. Una sessantina di giovani della comunità ebraica romana hanno partecipato, Mercoledì 11 Maggio, a un aperitivo con cineforum, nato dalla collaborazione tra il movimento giovanile Haviu et Hayom e l’Ugei, che proponeva la suddetta pellicola.

L’Unione dei Giovani Ebrei Italiani (http://www.ugei.it/) ha così presentato  un’ iniziativa al pubblico romano, la prima del ciclo“ Roming”. Per Haviu et  hayom (http://haviuethayom.wordpress.com/) è stata invece la prima occasione per uscire davanti un pubblico giovane e proporre, in linea con i suoi valori, un aspetto culturale della società israeliana, come il cinema. Haviu et hayom, nato a Roma pochi mesi fa, è un gruppo di giovani ebrei, laici e sionisti, vicini ad Israele, “ma non senza riserve qualora le scelte governative non risultino in linea con un processo che porti all’affermazione del diritto all’esistenza di uno Stato palestinese democratico e autonomo, e ad una pacifica coesistenza tra i due popoli.”

Il movimento si impegna nel proporre all’esterno momenti di confronto, occasioni per mettere in dubbio, ma anche per comporre insieme, idee e punti di vista. Il film proposto affronta molteplici tematiche: dall’omosessualità alla complessa questione della giustizia.

E’ stato proprio quest’ultimo tema ad aprire il dibattito. L’agente del mossad che deve “far giustizia” uccidendo il nazista, fa nascere una domanda spontanea, ma dalla risposta meno immediata. Si tratta in questo caso di giustizia o di vendetta? Chi disegna i confini universalmente riconosciuti di questi valori?

Queste le domande che hanno stimolato un dibattito, positivo soprattutto grazie alla pluralità di opinioni emerse.

Qualcuno ha sostenuto che giustizia e vendetta sono due concetti morali, stabiliti dalla legge con criterio razionale, così da sottrarli a una dimensione arbitraria e soggettiva.

Qualche attento osservatore ha affermato invece che, nel momento in cui si uccide, portando così avanti una vendetta, si annienta qualsiasi genere di umanità.  Eyal, l’agente del Mossad, alla fine del film afferma infatti di non essere più in grado di uccidere. Ogni cosa che si avvicina a lui –dice- finisce per morire.

Il dibattito ha poi percorso strade più vicine ai nostri giorni e facendo riferimento ad avvenimenti attuali ci si è domandati se sia giusto gioire della morte di un nemico.

Le reazioni dei giovani presenti sono state concordi nel condannare manifestazioni di gioia nel caso di morte di nemici, sostenendo che il vero obiettivo da combattere sia l’idea e non l’uomo che la incarna. Ci si è poi domandati quando un nemico diviene tale. Prima di voler eliminare il nemico infatti lo si potrebbe voler in vita, tutelare la sua diversità.

Queste sono state solo alcune delle riflessioni che, Mercoledì 11 Maggio, hanno dato luogo a un’iniziativa culturale in un’ atmosfera di novità ed esordio. L’esordio si può immaginare come il primo passo che si compie e per questo lo si ricopre di importanza, esordio è nascita, un modo per diventare artefici di qualcosa.

Probabilmente questo deve essere il ruolo dei giovani: rendersi iniziatori, talvolta anticipatori, creare nuovi spazi e trasformarli in terreni di confronto. Insomma, divenire protagonisti di ciò che  intorno.

Dana Portaleone

Gaia Litrico

Oltre il muro

Riportiamo l’articolo pubblicato su Moked (http://moked.it/blog/2011/05/24/liberta-dopinione-valore-ebraico-irrinunciabile/)

Pochi giorni fa, sui muri della scuola ebraica, è apparsa una scritta: un anonimo autore insultava un membro della nostra comunità. Un’opinione dura e forse poco condivisa, espressa su una lettera pubblicata da Shalom, la causa che probabilmente ha spinto a compiere tale gesto. Due giorni di attesa, e l’insulto continuava ad imbrattare le mura di un edificio che per definizione dovrebbe essere il luogo della cultura, del confronto, del rispetto reciproco. Assistere a tutto questo e rimanere da parte non ci è stato possibile: in questo episodio abbiamo visto una minaccia alla libertà di espressione e di pensiero, proprio all’interno della realtà che è a noi più vicina: la comunità ebraica. La difesa di un valore, dunque, e non di un’opinione è stata la spinta a mobilitarci. L’idea è stata quella di coprire simbolicamente quella che per noi era un’espressione di intolleranza, nell’attesa che venisse rimossa definitivamente; così, muniti di fogli bianchi e scotch, abbiamo creduto, forse ingenuamente, di impegnarci per salvaguardare un interesse generale. La reazione a tutto questo, però, è stata totalmente inaspettata. Il giorno dopo, un’altra scritta è apparsa accanto alla precedente, e stavolta l’oggetto dell’insulto eravamo noi. Noi, Havi’u et Hayom, un gruppo di giovani ebrei nato dall’esigenza comune di proporre uno spazio di incontro e di crescita, autonomi rispetto a qualsiasi altro gruppo o movimento già esistente. Troviamo che la modalità con cui siamo stati criticati non sia soltanto sbagliata, ma sia soprattutto scoraggiante: ci ha stupiti il clima di intolleranza che regna nella nostra comunità, la totale assenza di un dialogo, l’impossibilità di esprimere un qualsiasi pensiero. È triste e frustrante pensare che proprio tra noi ebrei regni un clima così aspro e chiuso al confronto; la nostra storia ci dovrebbe indurre a privilegiare la libera espressione e il dibattito anche sulle tematiche più spinose, perché solo dal confronto può nascere il dialogo indispensabile a mantenere viva e vitale la nostra comunità e a consentire a tutti di coltivare la propria identità ebraica.

I ragazzi di Havi’u et Hayom