Non smettiamo di imparare

Per via di un nuovo lavoro, da qualche giorno mi capita di entrare nelle case di ebrei europei sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, che si sono poi trasferiti in Israele.

Sono tutte persone molto particolari e forti, con storie che dovrebbero ascoltare tutti, e che sempre lasciano qualcosa a chi ascolta.

Oggi mi è capitato di ascoltare la storia di chi al tempo della guerra era solo una bambina di 11 anni, costretta a lasciare la sua casa in Lituania per scappare in Russia, grazie alla fortuna di aver ricevuto in tempo documenti russi per passare il confine, al contrario di altre famiglie alle quali è stato negato l’accesso.

Anche lei condivide con tutte le altre donne, madri e nonne ebree, la capacità di offrire cibo a qualsiasi ora del giorno, così come la qualità di far sentire l’ospite come un parente, nonostante fosse stato il nostro primo, e probabilmente ultimo, incontro.

Ha raccontato moltissime cose, ma mi hanno colpito tre cose in modo particolare.

Per prima cosa, la sua commozione nel raccontare la storia e l’attaccamento a suo marito, ancora accanto a lei nonostante, anche lui, abbia dietro di se una storia fatta di fughe e campi di concentramento e, sulla pelle, ancora tatuato il ricordo di quei terribili anni.
Condividono ancora la vita felicemente, nonostante si siano incontrati dopo immani sofferenze che, sicuramente, di tanto in tanto riaffiorano nelle loro menti.

Mi ha colpito il racconto del suo arrivo in Israele, della gioia della sua generazione, ancora oggi, di sapere che esiste uno stato per il popolo ebraico e di come, già da bambina, sapeva che la sua vita l’avrebbe portata a vivere qui.

Finiti gli studi di medicina dopo la guerra in Lituania e il trasferimento in Israele, si è ritrovata medico in anche piccole città del nord, tra cui cittadine arabe. L’unica cosa che ha voluto condividere di questa esperienza è di come il suo lavoro anche in questa situazione l’abbia arricchita e di come il popolo arabo e quello ebraico siano due popoli che hanno da imparare molto uno dall’altro, proprio come lei è successo a lei.

Alla fine dell’intervista, le viene chiesto se può raccontare di come abbia superato i traumi della guerra e di come la sua storia l’abbia influenzata nella sua vita. Dopo aver pensato qualche secondo, racconta di come ormai, dopo anni, sia riuscita ad allontanare quell’esperienza e a godersi la vita senza paure e rimpianti, tranne che per una cosa: “quella fetta di pane”.

Durante la guerra, quando le razioni di cibo erano centellinate, con una fame lancinante e dopo aver ricevuto solo mezza razione di ciò che le spettava, l’allora bambina ha rubato una fetta di pane, per riuscire a sfamare sia lei che la sua famiglia. Fu un furto che nessuno di noi avrebbe il coraggio di non giustificare, come comprensibile, vista la situazione. Ma è un’azione che ancora lei stessa non si perdona, perché, anche se costretta ad un gesto simile, non ha mai perso di vista la moralità.

Questa è una moralità che la società di oggi deve andare a ricercare nella storia dei propri nonni, che non dobbiamo fare l’errore di lasciarci scappare.

Daniele Di Nepi
Twitter: @danieledinepi

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