“Mi chiamo Shlomo Venezia…”

“Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923. La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell’espulsione degli ebrei nel XV secolo ma, prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo «Venezia». Gli ebrei provenienti dalla Spagna non usavano cognomi: si chiamavano, ad esempio, Isacco figlio di Salomone. Arrivati in Italia, prendevano il nome della città in cui vivevano. Per questa ragione molte famiglie ebraiche portano nomi di città. Nel nostro caso è quello che ci ha permesso di conservare la cittadinanza italiana.” Quando Shlomo si presentava a chi ancora non lo conosceva, iniziava sempre il discorso con questa frase. Probabilmente l’avrà pronunciata centinaia e centinaia di volte, perché Shlomo ha dedicato la sua vita al racconto.

Fu arrestato con la madre, il fratello e tre sorelle ad Atene nell’ aprile del 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Durante la sua prigionia svolgeva un lavoro terribile, anello immancabile della precisa macchina della morte nazista, era membro del Sonderkommando, un’unità speciale. Il suo compito era quello di accompagnare coloro che non erano più considerati abili al lavoro, alla morte nelle camere a gas. Gli faceva togliere vestiti e scarpe, gli tagliava i capelli per poi farli accomodare dentro. Poco dopo avrebbe trasportato i cadaveri verso i crematori, dove sarebbero diventati cenere.

Complici dello sterminio erano, secondo quest’ottica, non solo i nazisti, ma anche gli ebrei stessi. “Se avessi saputo che il nostro lavoro supplementare consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che accettare, ma quando lo compresi era troppo tardi. Noi non avevamo scelta: quelli che si rifiutavano venivano immediatamente uccisi con un colpo di pistola alla testa. E poi non ragionavamo più col nostro cervello, pensando a quello che succedeva… eravamo diventati degli automi.”

Ma è stato proprio questo lavoro barbaro, che ha torturato Shlomo ogni giorno della sua vita fino all’ultimo, a salvarlo: i membri del Sonderkommando avevano un trattamento migliore degli altri prigionieri, a volte mangiavano qualcosa di più, ma venivano sterminati periodicamente, per cancellare ogni prova di quel meccanismo mortale. Se il ricordo di quei giorni era incancellabile nella sua mente, è stato proprio il coraggio e la forza di ricordare a far vivere Shlomo.
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo nel novembre 2006, quando ho partecipato ad uno dei “Viaggi della Memoria” organizzati dal sindaco Veltroni, insieme a 230 studenti delle scuole romane. Ho conosciuto la sua dolcezza, la sua umanità, il suo sorriso, la sua enorme forza e l’instancabile voglia di raccontare. I ragazzi rimanevano stregati dalle sue storie. Avrebbero potuto ascoltarlo per ore, e lo hanno fatto tante volte fino a tarda notte nei corridoi e per le scale dell’hotel di Cracovia che ci ospitava, senza interruzioni, con le lacrime agli occhi e il desiderio di capire. Capire perché tutto questo è accaduto sarebbe impossibile, ma ricordare e tramandare la memoria che ci ha lasciato è un dovere di noi tutti. Le sue parole sono un testimone unico che è nostro dovere raccogliere per passarlo alle generazioni successive perché “è successo, quindi può accadere di nuovo”.

Non dimenticherò mai quando, forse a causa della mia ingenuità di ragazza appena diciottenne, o forse mossa dalla voglia di sapere e capire che quel viaggio aveva suscitato in me, chiesi ai sopravvissuti dove avevano trovato, una volta usciti dai campi,  la forza e la voglia di andare avanti, cosa li aveva spinti a lottare per la vita ed a non abbandonarsi, invece, alla morte suicida, come molti avevano fatto. Oggi non sarei in grado di porre una domanda simile, ma fu proprio Shlomo a volermi rispondere: “Dopo 47 anni che racconto”, disse, “non ho mai pensato al suicidio. Ho esternato le emozioni parlando e mi ha aiutato. Oggi ho meno malloppo”.

Se Shlomo ha deciso di raccontare la sua esperienza, a differenza di molti altri che si sono tenuti, e si tengono ancora, tutto il dolore dentro, se si è sentito alleggerito col tempo, e se ha provato meno senso di colpa, se è riuscito un po’ a guarire da quella che chiamava “malattia del sopravvissuto” è grazie a  tutti coloro che lo hanno ascoltato, gli hanno fatto domande e lo hanno stimolato a raccontare.

Shlomo se ne è andato, ed ognuno si deve sentire come se avesse perso qualcosa di importante, un gioiello prezioso, una testimonianza unica al mondo. Ma non sarà dimenticato. Le sue parole sono impresse non solo nella carta e nella pellicola, ma nei nostri cuori, nella memoria di migliaia di giovani che lo hanno seguito, ascoltato e che si sono presi l’impegno di farlo vivere attraverso le parole.

“Non si esce mai veramente da Auschwitz”, ci diceva Shlomo. Io spero che oggi Shlomo sia finalmente riuscito ad uscire dal campo di sterminio, a lasciarsi per sempre l’orrore alle spalle. E che possa riposare in pace.

Arrivederci mio grande maestro, educatore, guida ed esempio.

Susanna Ascarelli

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