Israel got viral

Se v’è qualcosa di certo, al riguardo di En tus tierras bailaré, è che questo trapianto globale di folklore andino il cui ritornello (“Israel, Israel, ¡qué bonito es Israel!”) il villeggiante frastornato udrà risonare gagliardo ai padiglioni di quelle italiche miniature di esposizioni universali che gli oriundi s’ostinano a chiamare dimessamente fiere paesane è―va detto senza indugi―arte. Il lettore che d’agosto affolli altri lidi abbisognerà d’una ricerca in internet. Chiunque, del resto, se ne potrà giovare; giacché anche a voler dire tutto, del video che, a detta d’alcuni, in quaranta milioni hanno visto, non ci si avvicinerebbe neppure a raccontarne la grandezza. Non varrebbero né la minuta descrizione della danza panica dei neo-Breslav sullo sfondo di Wendy, al contempo novella Amarilli e puttina in rosa shocking, che scandisce con sconsolato ed imperfettibile ardore il ritornello sionista; né lo sciorinamento dell’elenco della fauna che il video arruola come puramente dispensabile comparsa (dai lama ad una coppia di annoiati cammelli; dai pappagalli ad un gruppo di primati, uno dei quali lo spettatore attento vedrà rotolarsi con gaia spericolatezza giù per un dosso al minuto 2:57); né, infine, il tentativo di rendere l’intensità dell’Ur-schrei iniziale (“¡No puede ser! ¡No!”), in cui uno degli interpreti prorompe dopo essersi avveduto, grazie ad una serie di interviste mostrate in televisione, della diffusa percezione negativa nei riguardi d’Israele.

Come si diceva, di arte trattasi. E l’arte si dà, nel video, in qualche maniera attraverso (chiedersi se grazie o nonostante sarebbe ozioso) l’interpretazione di tre eroi della música chicha. In primis la Tigresa del Oriente (l’Oriente, s’intende, del Perù), al secolo Judith Bustos, cui la carne di procace sessantenne straripa con generosa oscenità dal costume―appunto―tigrato comprensivo d’artigli posticci, e che chi scrive ammira per la bonomia con cui ha saputo perdonare a Lady Gaga, in ripetute apparizioni pubbliche, l’averne plagiato costume e movenze. In secundis Delfín hasta el fin (aka Delfín Quishpe), ecuadoriano del quale un’intera generazione idolatra il caratteristico passo, la cui esecuzione è debitamente annunziata, nel video, dalla medesima voce galvanizzante che in molti sospettano essere responsabile di ogni annuncio vocale nel subcontinente centro- e sudamericano (cfr. minuto 1:35: ¡“Y ahora el pasito del Deflín!”), e che certamente lo è dell’invito, formulato poco dopo (cfr. minuto 3:30), a “todos: niños, ancianos, maestros, pescadores y fútbolistas, estrella, famoso, panadero o agricultor”, a lasciar fluire l’amore “sin prejuicios”. Infine Wendy Sulca, quattordicenne peruviana sprovvista di nome d’arte, vestale del folklore andino, incarnazione quintessenziale dell’innocente malizia puberale, assurta a fama internazionale, sin dalla (nel suo caso forse meno) tenera età di otto anni, per hits quali La tetita e Papito―dedicata, quest’ultima, al defunto genitore.

Il movente che ha indotto una serie di creatives ebrei a contattare questi tre artisti con un testo di nostalgico e sguaiato amore per un Paese che non hanno mai visto, una musica prodotta dal compositore argentino Gaby Kerpel (del collettivo di musica latina elettronica Zizek) ed un progetto visuale in stile vaquero-teocriteo, per poi montarne artigianalmente gli sforzi in una confezione che appare emersa dalla fucina di un addetto agli audiovisivi ebefrenico del Ministero del Turismo israeliano, rimarrà con tutta probabilità per sempre insondato. La documentata e sussiegosa nota dedicata alla Trimūrti della musica folklorica latinoamericana dall’argentino Página/12 (l’Izvestia del progressismo porteño) scorge nell’impresa, con magistrale intreccio di paternalismo e ideologia, oscure trame di propaganda sionista che avrebbero alterato l’ingenuità del trio. Un più empatico elzeviro della New York Review of Books tira in ballo la sontaghiana nozione di camp, ed esprime commossa ammirazione per il vitalistico ottimismo dei tre. Nei commenti online a quest’articolo qualcuno ricorda l’identificazione, da parte dei missionari gesuiti che giunsero in Perù nel ‘600, di alcune tribù amerinde con le tribù perdute d’Israele, e la diffusione nel Paese, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, dell’evangelismo della Misión israelita del nuevo pacto universal. A chi scrive tutto ciò appare tutto sommato di rilevanza assai relativa. Dinanzi all’opera d’arte non s’ha che da premere, per l’ennesima volta, “Play”.

Emanuel

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